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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2012 alle ore 11:44.

Sul babbo meno. Lui, il teatro, non lo capiva. E forse non l'avrebbe capito mai più. «Non mi piace…» ripeteva il padre,«Ma come fai a sapere che non ti piace se non ci sei mai stato…» ribatteva la madre. «Già lo so. Me lo sento!» tagliava corto lui. Alla fine la moglie aveva convinto il marito dicendogli che sarebbe stato uno sgarbo, un'imperdonabile mancanza nei confronti del figlio. Così i genitori, vestiti troppo pesanti per il generoso autunno romano, con un mazzo di fiori e i pesanti cappotti sulle ginocchia, si erano seduti nei posti riservati loro dal figlio in un teatro off della città. Non appena calarono le luci e lo spettacolo ebbe inizio, il marito, che aveva lasciato a casa gli occhiali, strizzò gli occhi per cercare di distinguere meglio uno degli elementi della scenografia, che gli pareva una donna seduta su un cesso. Un cesso. Possibile? Chiese alla moglie. «Fammi sentire!» rispose lei, quantunque nessuno avesse parlato finora. In seguito un gioco di luci e altri dettagli rivelarono inequivocabilmente che si trattava proprio di un cesso.

E accanto al cesso c'era una doccia. Una doccia. Possibile che fosse una doccia? Se quello di prima era un cesso, pensò lui, poteva darsi che quella fosse una doccia. Dopodiché, come partorito dal ventre buio delle quinte, uscì una figura magra e nuda che si mise sotto la doccia, da cui usciva un vero getto d'acqua. E il padre a questo punto non si chiese più se fosse possibile che quel ragazzo che si lavava nudo fosse suo figlio, perché aveva già capito che a teatro tutto era possibile. Anche che l'acqua fosse fredda. E ci mancò poco che il ragazzo non buscasse una polmonite perché dopo lo spettacolo – che ottenne tra l'altro ottime critiche – rimase a letto per una buona settimana con la febbre alta. La madre si riportò a casa quella esile e sciupata figura, gli rifece il letto nella sua cameretta che era rimasta come quando l'aveva lasciata e, come una Madonna avrebbe fatto col suo Cristo deposto, lo accudì e lo nutrì finché non fu ristabilito.

Durante la malattia il padre, che covava da un po' quella domanda, nonostante la moglie lo avesse scoraggiato dal farla, si avvicinò al figlio che giaceva a letto con una pezzuola sulla fronte e gli chiese cosa diavolo rappresentasse quello spettacolo. Wilson con un filo di voce spiegò che si trattava di un lavoro sulla memoria sensoriale: «sulla poetica del corpo e dell'oggetto», disse proprio così, «sull'oscurità dello spazio e la forza del silenzio». Il padre non volle approfondire, attribuendo quelle parole al delirio della febbre. La famiglia sperava che quell'incidente di percorso avrebbe distolto Wilson dal seguitare la carriera d'attore, dimostrando così di sottovalutare quel sano fanatismo che accompagna al successo, o alla disgrazia, ogni vero attore di teatro.

Dal febbrone era passato un anno. Wilson non aveva ricoperto altri ruoli, ma in compenso aveva cambiato tre mestieri. Era stato innanzitutto cameriere, un passaggio quasi obbligato nella carriera di un grande attore. Ma nonostante tutti gli esercizi condotti sul corpo e sul movimento, la sua coordinazione lasciava a desiderare e i troppi piatti rovesciati e le cazziate dei capocamerieri lo avevano indotto presto a cercarsi un altro lavoro. Un amico gli aveva passato un lavoro facile e ben pagato: arbitro di boxe. Si trattava di fare un corso federale e di arbitrare un paio d'incontri a settimana. Un mestiere che gli permetteva di lavorare di sera, ma che non era privo d'inconvenienti. Quando Wilson dovette rinunciare a un'importante scrittura – l'avevano preso come corista in un musical – e fu costretto a passare sei settimane con la cannuccia in bocca, in silenzio, a mangiare omogeneizzati in attesa che si saldasse la frattura della mandibola, apprese due amare leggi: la prima era che la disgrazia di uno può diventare la fortuna di un altro (il corista che lo sostituì fu notato dal potente giudice di un seguitissimo talent show), la seconda era che non esistono lavori facili e ben pagati. Recuperata totalmente la mobilità della mandibola, per mantenersi Wilson aveva trovato un altro lavoro: il dog sitter. L'ispirazione era venuta vedendo che molti dei suoi giovani amici attori avevano cani, lupetti smilzi e spelacchiati con gli occhi intelligenti, o bastardini di taglia piccola, indolenti ma curiosi. Se i padroni dovevano andare a un provino, o sul set per una rara giornata di lavoro, glieli affidavano volentieri. Scoprendosi inaspettatamente a suo agio con quel nuovo pubblico, che non giudicava né avanzava altre richieste che non fossero una scatoletta di carne e una ciotola d'acqua, Wilson pensò che poteva trasformare quel passatempo in un mestiere.

Così aveva messo un annuncio sui giornali gratuiti, aveva sparso la voce nel quartiere e, dopo poco, il telefono si era messo a squillare. Wilson passava le mattinate all'aria aperta, passeggiando per i parchi o marciando alla testa (anzi, a dire il vero erano loro che conducevano il passo) del suo plotone di quadrupedi sui dissestati marciapiedi di Roma. A volte cavava fuori di tasca un libro sul metodo e, seduto su un muricciolo con una sigaretta in bocca, si metteva a studiare accoccolato al sole del mattino proprio come uno dei suoi cani. Altre volte invece, con una busta di plastica in mano, intirizzito dal freddo, attendeva i comodi delle bestie per raccogliere quei doni inaspettati che uscivano dai loro corpi caldi. Una volta la neve era scesa persino a Roma, e i cani erano come impazziti dalla gioia e si erano messi a rincorrersi e rotolarsi per tutto il parco. Anche Wilson aveva partecipato a quell'eccitazione, sentendosi ormai a tutti gli effetti uno del branco. Aveva persino immaginato di rovesciare una panchina, farne una slitta e attaccare il suo tiro di cani che lo avrebbe portato fin nel Klondike, dove avrebbe trovato un filone d'oro e sarebbe diventato così ricco da costruirsi un teatro tutto per sé… Ormai era qualche mese che faceva il dog sitter e quel lavoro – faceva fatica ad ammetterlo – gli piaceva.

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