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Questo articolo è stato pubblicato il 30 dicembre 2012 alle ore 08:17.

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Quarant'anni fa, in questo periodo, la medicina, la sanità pubblica e il mondo politico statunitense erano sotto shock. Era diventato tragicamente chiaro come la medicina fosse diventata qualcosa di veramente seria e importante, per cui le decisioni non si potevano lasciare nelle mani solo dei medici. Cioè di quella combinazione di paternalismo e pragmatismo che i medici scambiavano, e spesso ancora scambiano, per saggezza morale, e definiscono frutto di "scienza e coscienza". Oggi sappiamo che la medicina non è una scienza e che della coscienza non dobbiamo proprio fidarci. Quindi nessuno, nemmeno un medico, ha diritto di imporre a chiunque altro i propri valori. Ergo l'etica medica è qualcosa di un po' più complicato di come la vedono sia i professionisti della bioetica sia quei medici moraleggianti che rimpiangono un passato che esiste solo nella retorica paternalista.
A fine luglio del 1972 era comparsa sulla prima pagina del «New York Times» un'inchiesta dal titolo: "In uno studio condotto negli Stati Uniti, vittime della sifilide non sono state curate per 40 anni". Lo studio era definito «il più lungo esperimento non terapeutico su essere umani nella storia della medicina». Da quel momento si metteva in moto una macchina politico-istituzionale, in qualche modo già predisposta da una serie di articolati sviluppi in ambito legale, accademico e sanitario, che nell'arco di sei anni avrebbe completamente ridisegnato il quadro di riferimento valoriale dell'etica medica occidentale. E venticinque anni dopo, il 16 maggio 1997 l'allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton chiedeva pubblicamente scusa a otto sopravvissuti e alla comunità di colore di quel Paese con queste parole: «Il Governo degli Stati Uniti ha fatto qualcosa di tragicamente, profondamente, moralmente sbagliato. Abbiamo offeso il nostro impegno a garantire integrità e uguaglianza per tutti i cittadini… un atto chiaramente razzista».
Tutto era iniziato nel 1932, nella Contea di Macon in Alabama. A seicento uomini di colore, poveri e analfabeti, fu chiesto di sottoporsi ad accertamenti diagnostici periodici con la promessa del trasporto gratuito all'ospedale, nonché di pasti caldi, di cure e di funerali a spese del Governo. Ai medici interessavano i 399 soggetti risultati affetti da sifilide, che ovviamente non furono informati della loro condizione, né curati, se non con blandi e inefficaci trattamenti. A tutti fu detto che avevano il "sangue malato" (bad blood), e che erano necessari periodici prelievi di midollo spinale. Negli anni Quaranta in 250 furono trovati positivi per la sifilide alla visita di leva, e per legge avrebbero dovuto essere sottoposti a trattamento obbligatorio con penicillina, il nuovo e finalmente efficace antibiotico da poco sperimentato. Furono esonerati dalla cura per disposizione del servizio sanitario. A conclusione dell'esperimento 28 uomini erano morti direttamente di sifilide e 100 per complicazioni associate alla malattia. Quaranta mogli si erano infettate, e 19 bambini nati dai matrimoni erano affetti da sifilide congenita.
Lo scandalo del Tuskegee Study, così è oggi conosciuto quell'esperimento che mirava a studiare la storia naturale della sifilide, contribuì all'affermarsi del principio che la sperimentazione sull'uomo non è moralmente e legalmente accettabile in assenza di consenso. Lo si era scritto anche nel Codice di Norimberga, ma evidentemente non era bastato. Il primo a cui venne il sospetto circa la moralità dell'esperimento fu un esperto di malattie veneree, Peter Buxtun, che nel 1966 espresse le sue perplessità al Center for disease control statunitense. La replica fu che l'esperimento doveva continuare fino al completamento, cioè fino alla morte e all'esame autoptico di tutti i soggetti. Buxton decise di rivolgersi alla stampa. E raccontò la storia a una giornalista, che la pubblicò. La prima reazione dei responsabili dello studio fu di minimizzare, sostenendo che i soggetti erano volontari e che erano felici quando i medici li andavano a visitare. Ovviamente si era rifiutato qualsiasi paragone con gli esperimenti dei medici nazisti. Ma a seguito dello scandalo venne creato un comitato che nel rapporto finale, reso pubblico nell'ottobre del 1972, giudicava l'esperimento immorale sia per quanto riguarda il modo in cui era iniziato sia per come era stato continuato; ne raccomandava l'immediata cessazione, nonché il risarcimento delle vittime sopravvissute.
Nel suo rapporto il comitato suggeriva fortemente la creazione di una commissione nazionale sulla sperimentazione umana con l'autorità di regolamentare tutti gli studi sperimentali con soggetti umani finanziati con fondi federali. Il comitato non venne creato. Tuttavia dopo una serie di audizioni che riguardarono anche il Tuskegee Study alla Commissione lavoro e affari sociali del Senato statunitense, presieduta da Ted Kennedy, nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti votava il National research act, che istituiva la National commission for the protection of human subject of biomedical and behavioral research. La Commissione, composta da undici esperti, doveva proporre delle linee guida di carattere etico per la regolamentazione della ricerca sperimentale su soggetti umani e su feti. Nel giugno 1978 veniva licenziato il "Rapporto Belmont". I principi del rispetto per le persone e le loro scelte morali autonome, della beneficialità per i soggetti umani della ricerca biomedica e della giustizia nella distribuzione sociale dei benefici e degli inconvenienti venivano per la prima vota identificati come criteri di riferimento per la valutazione etica della ricerca e della pratica biomedica.

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