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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2013 alle ore 13:13.

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Non è un ricordo, questo, ma una lettera d'amore. Se uno dovesse pensare a un modo di salutare per l'ultima volta Mariangela Melato, dovrebbe farlo come il sodale con cui costituì la coppia più atipica, sexy e affiatata del cinema moderno italiano, Giancarlo Giannini. Precisamente dovrebbe salutarla piangendo, urlando e insultandola, come nel finale di «Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto». Non voleva essere lasciato quel marinaio proletario da quella splendida borghese pedante e sensuale, non vogliamo essere lasciati noi dalla sua arte, dal suo talento, dalla sua bellezza.

Dalla «Bisbetica Domata» in teatro, dai suoi ruoli impossibili al cinema, da quegli occhi in gioventù vibranti e ruvidi, duri e liquidi e in vecchiaia – ma è mai davvero invecchiata? - profondi e irresistibili (non ci credete: guardatela nella foto in cui mostra il Ciak d'Oro nel 2012, stretta tra Sergio Castellitto e Pedro Almodovar). Mariangela Melato ci fa un torto a lasciarci così, come una combattente fino all'ultimo contro una malattia dura e implacabile, ma troppo presto.

Mariangela Melato, al di là del freddo elenco di tutto ciò che ha fatto, era semplicemente un'attrice totale ma, soprattutto unica. E lo era nella più ampia accezione del termine, perché con Monica Vitti, nel cinema italiano degli ultimi 40 anni, è stata l'unica a saper essere protagonista femminile drammatica e comica, l'unica a saper essere mattatrice di cinema e teatro e non elegante appendice di primattori maschili. Sapeva essere campionessa in un collettivo, come al cinema, come sul palco prodursi in one woman show di incredibile potenza.

Impossibile dimenticare, sul grande schermo, il sodalizio con Giannini, ovviamente, sotto l'egida della direzione di Lina Wertmuller: Mimi Metallurgico ferito nell'onore («vergine... nel senso dell'oroscopo?»), Film d'amore e d'anarchia (e chi se la scorda la sua Salomé?) e il già citato Travolti da un insolito destino... che la fece apostrofare dal manesco Giancarlo addirittura come "bottana industriale". Ma lei è stata faro anche del miglior Elio Petri, da «La classe operaia va in Paradiso» a «Todo Modo», la vista sui set di Nino Manfredi («Per grazia ricevuta»), Vittorio De Sica («Lo chiameremo Andrea»), Mario Monicelli («Caro Michele» e «Panni sporchi»), Luigi Comencini («Il gatto») e la figlia Cristina («La fine è nota»), Sergio Citti (nello straordinario Casotto, anche grazie a lei, e Mortacci), Giuseppe Bertolucci («Segreti Segreti» e «L'amore probabilmente»), Pupi Avati (che la scoprì al cinema con «Thomas» e gli indemoniati e che la ritrovò in «Aiutami a sognare»), Sergio Rubini («L'amore ritorna», il suo penultimo lungometraggio), Claude Chabrol («Sterminate Gruppo Zero»).

Ma Mariangela Melato era, in tutto, eclettica e priva di schemi, cosicché molti di noi non potranno non ricordarla, con un sottile brivido d'eccitazione, anche come icona camp in Flash Gordon o nel cinema di (vario) genere di Salce, Corbucci, Steno, Festa Campanile (recuperate «Il petomane», gioiello dimenticato e straniante: lì, con Tognazzi, c'è il meglio del cinema italiano più grande e sottovalutato). E, ovviamente, è impossibile non citare quel capolavoro che fu «Il pap'occhio» di Renzo Arbore, forse l'amore più grande della sua vita.

Ma fa una rabbia, Mariangela, pure sapere che non ti rivedremo su quel palco che era la tua casa, in quei teatri che hai fatto tremare interpretando, per esempio, «Casa di bambola», forse nell'adattamento più bello, o nelle donne straordinarie e laceranti di Euripide – Fedra e Medea -, per non parlare del sodalizio con Luca Ronconi che dall'«Orlando furioso» a «Nora alla prova» (in cui i primi infortuni che l'hanno fatta assentare dalle scene sono state le prime avvisaglie della malattia) l'ha valorizzata alla grande. E anche qui, però, non si buttava solo sui classici, ma cercava il popolare, come in «Alleluia brava gente».

Studiò pittura all'Accademia di Brera, fece la vetrinista alla Rinascente per pagarsi gli studi di recitazione: c'era anche questo in quello stare sulla scena da protagonista gentile e determinata, la forza di chi aveva ottenuto tutto con il talento ma anche con la fatica, di chi un compromesso, umano ed artistico, non l'aveva mai accettato. Di chi fino all'ultimo giorno dei suoi 71 anni di vita ha lottato, come una leonessa.

Mariangela Melato era, infine, una donna straordinaria. Una che, a chi scrive, concesse un'intervista lunga, interessante e dolcissima, nonostante la testata per cui lavorassi fosse sconosciuta, probabilmente, anche a chi la editava. Era come la sua bellezza: gentile, nobile, stordente, profonda, sensuale, originale, complessa. Invecchiando, forse, era diventata ancora più affascinante e brava, più consapevole e forse finalmente priva di quel barlume d'incertezza che ogni tanto si accendeva nei suoi occhi, segno d'umiltà ed ennesima fonte di charme di una donna indimenticabile.

Le dissi, sfacciato come mai dopo allora, alla fine di 40 minuti di chiacchierata, quanto fosse bella e che, pur diciottenne (lei ne aveva, allora, cinquantacinque), l'avrei rapita e portata sulla famosa isola deserta nell'azzurro mare d'agosto. Sorrise e rispose. «Bella io? Più che altro strana». Inconsapevole e irresistibile. Per dirla alla Mimì Metallurgico, era femmina. E femminista, senza ideologie, ma nell'interpretare donne forti, emancipate, combattive. Com'era lei, d'altronde.

Mariangela, è giusto che tu lo sappia: questa partenza non te la perdoneremo mai.

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