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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2013 alle ore 08:16.

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Non è affatto sorprendente che la bioetica pubblica abbia catturato l'attenzione dei legislatori e quella dei cittadini. Pochi ambiti del governo sono caratterizzati in modo così forte dalla relazione tra diritto e morale. Nel contesto della bioetica pubblica il governo utilizza i propri poteri coercitivi al servizio di rivendicazioni morali riguardo fondamentali questioni umane vigorosamente, e spesso aspramente, contestate.
La bioetica pubblica, come tipo di governo, è peculiare poiché unisce l'azione dello stato con rivendicazioni morali forti e contestate. La diffusione del discorso bioetico pubblico comprende concetti quali autonomia, giustizia, uguaglianza, dignità e persona. Questi e altri simili principi etici sono indispensabili per le decisioni politiche in questo campo.
Le questioni su come la scienza potrebbe e possa essere integrata nel processo di governo e nelle leggi che questo produce, sono fortemente radicate nel costituzionalismo americano. Timore e ottimismo rispetto al potere e alle promesse della scienza moderna, sono stati, fin dal principio della nazione, i caratteristici tratti americani. Tra i limitati poteri elencati dalla Costituzione, al Congresso è esplicitamente conferito il potere di «promuovere il Progresso della Scienza». Leon Kass ha scritto che: «La Repubblica americana è, per quanto ne so, la prima forma di governo che abbia esplicitamente abbracciato il progresso scientifico e tecnico e che abbia dichiarato la sua importanza per il bene pubblico».
Molti dei Padri Fondatori erano loro stessi degli uomini di scienza. Benjamin Franklin era membro di due delle più prestigiose accademie scientifiche al mondo. Thomas Jefferson nutrì una passione, durata tutta la vita, per la scienza sostenendo che quella moderna confermasse la verità dell'uguaglianza umana rivendicata dalla Dichiarazione di Indipendenza: «La generale diffusione del lume della scienza ha già lasciato aperta alla vista di ognuno la palpabile verità che la moltitudine dell'umanità non sia nata con una sella sul proprio dorso, né che una sparuta minoranza, con stivali e speroni, sia pronta a cavalcarli legittimamente, per grazia di Dio». Nonostante non fosse un professionista, John Adams condivise un costante rispetto e interesse nei confronti della scienza. James Madison scrisse un saggio sul «parallelismo tra il mondo della natura e quello delle faccende umane».
Tuttavia, dalla fondazione dell'America ai tempi odierni ci sono stati pensatori che hanno sostenuto un proposito ancora più ambizioso, vale a dire l'importazione delle premesse e dei metodi della scienza direttamente all'interno dello stesso processo di governo. Nella sua forma più forte e idealista, si affermava che: «Se la politica fosse fatta dagli scienziati, tutte le questioni contingenti sarebbero state infine depoliticizzate e, una volta ricondotte alla scienza, tutte sarebbero potute essere risolte». (Roy MacLeod).
L'affermazione che, considerati tutti gli aspetti, la scienza sia meglio governata dagli scienziati, è stata e continua a essere evocata nella pubblica piazza americana. Libero dalle questioni teoriche riguardo il significato e gli scopi ultimi nel mondo della natura, e focalizzato, invece, sul raggiungimento attivo e empirico della conoscenza su come funzionino le cose, il potere della scienza moderna crebbe in maniera esponenziale. Altre tre caratteristiche contribuirono sostanzialmente al suo prosperare, vale a dire il suo impegno al fisicalismo, al meccanismo riduttivo e la stretta aderenza a leggi e limiti epistemici. Come osservato da Kass «scienza della natura che ha fatto enormi progressi grazie alla sua neutralità metafisica e alla sua indifferenza rispetto alle questioni dell'essere, della causa, dello scopo, della spiritualità, della gerarchia e del bene e del male delle cose, sapere scientifico incluso».
Ma come osservava George Graham «la scienza non può dedurre o produrre conclusioni scientifiche riguardanti gli scopi o i propositi appropriati delle politiche pubbliche. Può, al massimo, offrire una conoscenza migliore delle cause e degli effetti che circondano quegli aspetti che le politiche di governo andranno a influenzare». «Sono soltanto la teologia, la filosofia o la politica che possono stabilire gli scopi della scienza e della tecnologia che la scienza produce, e decidere se questi siano buoni o meno». (Frank Fukuyama).
A che scopo la scienza? A che scopo la medicina? E inoltre, a che scopo il governo e la legge? La scienza moderna non fornisce alcuna risposta. E, di conseguenza, c'è chi è tentato di considerare questi interrogativi come insignificanti. Questa conclusione è forse il più grave rischio di quello che io chiamo modello di Massima Deferenza di integrazione per la bioetica pubblica, che rimanda tutte le decisioni bioetiche alla scienza e agli scienziati. Il fatto di togliere tali questioni dalle mani pubbliche e affidarle a una comunità d'elite rischia di erodere i principi democratici e di far sorgere lo spettro di una tecnocrazia fatta di manager e funzionari.
In ogni contesto una governance saggia deve ovviamente fare affidamento su quei dati empirici rigorosamente raccolti e testati che la scienza può fornire. E queste scoperte empiriche non devono mai essere distorte o mal interpretate per fini politici. Tuttavia, al di là di queste osservazioni di ovvio senso comune, come può la scienza entrare nella bioetica pubblica in modo costruttivo, senza corrompere il processo di governo o senza corrompere se stessa? Stabilita la relazione ampiamente divergente e certamente incommensurabile tra le premesse e i metodi della scienza moderna e i concetti umanistici che rappresentano il cuore della bioetica pubblica, una relazione tra le due che possa funzionare dipende dal limitare la loro applicazione alle proprie rispettive competenze. Una sana bioetica pubblica dipende quindi dallo stabilire e, successivamente dal porre delle norme, ai confini tra scienza ed etica per questo settore di governo: questo è ciò che chiamo approccio d'integrazione.

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