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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2013 alle ore 08:18.
E se ci affacciassimo oltre la tribuna ove si ergono gli scrittori canonici neotestamentari - dall'evangelista Matteo al Giovanni dell'Apocalisse - che cosa scopriremmo? Solo la distesa lussureggiante ma aggrovigliata degli scritti apocrifi? Oppure un campo fertile e costellato di sorprese? Sì, è proprio così e la prova è offerta da quegli autori che, a partire dal 1672, sono denominati "Padri apostolici". Se li vogliamo incontrare tutti (sono una decina di opere, molto variegate anche al loro interno), abbiamo a disposizione ora un volume che ne raccoglie le traduzioni e i commenti a cura di un docente pugliese, Carlo dell'Osso.
Sarà un'esperienza inattesa la loro lettura, perché in essa si delinea dal vivo un affresco ideale ed esistenziale delle comunità cristiane delle origini, a cominciare da quella Didachè ("Insegnamento") che pesca negli strati più profondi della storia dell'era volgare, assemblando testi degli anni 50/60, quando san Paolo predicava e scriveva le sue prime lettere e probabilmente non erano ancora stati composti i Vangeli. Il compilatore, che vive sul finire del I secolo, in queste pagine fa vibrare l'atmosfera di una Chiesa ove risuonano ancora gli echi del giudaismo delle radici e ci fa vivere i primi e fondamentali riti cristiani come il battesimo, l'eucaristia, la catechesi morale, la recita del Padre nostro.
Ma andiamo oltre, per imbarcarci su una nave che, nei primi anni del II secolo, sta trasferendo a Roma in stato d'arresto il vescovo di Antiochia, Ignazio. Pur trovandosi «legato a dieci leopardi, cioè al manipolo di soldati» crudeli, egli riesce a scrivere sette lettere alle varie Chiese di Efeso, di Magnesia, di Tralli, di Filadelfia, di Smirne e di Roma «che presiede alla carità», oltre che a Policarpo, vescovo di Smirne. Paradossale è l'attesa fremente coltivata da questa figura ferma, nobile e colta: «Lasciatemi essere pasto delle belve - scrive ai Romani - per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e sono macinato dai denti delle belve per diventare puro pane di Cristo» (evidente è il rimando all'eucaristia).
Giunti a Roma, però, ci viene incontro un altro personaggio, un liberto di nome Erma, con un'opera enigmatica della prima metà del II secolo, intitolata Pastore, costruita su cinque visioni, su dodici precetti e dieci "similitudini" molto diseguali tra loro. Lasciamo ai nostri lettori di inoltrarsi in questo caleidoscopio ove, ad esempio, saranno guidati da un'anziana visionaria (la Chiesa) che regge un libretto, ci fa contemplare una torre, ci atterrisce con una belva e alla fine ringiovanisce... Per non parlare delle "similitudini" popolate di olmi, vigne, salici, torri, monti, contadini, padroni, pastori, donne, angeli... Ci attende, a questo punto, un'ultima opera veramente straordinaria, scoperta a Costantinopoli nel 1436 in un codice che migrò poi nella Biblioteca municipale di Strasburgo ove fu distrutto nel 1870 dalle bombe lanciate dall'artiglieria prussiana.
Per fortuna questa lettera indirizzata a un certo Diogneto - forse un nome fittizio destinato a incarnare un pagano al quale vengono delineati i cardini della fede cristiana (l'opera è, perciò, più un discorso o un trattatello che un'epistola) - era stata edita precedentemente in due accurate recensioni critiche. Impressiona il respiro intellettuale e l'apertura interiore di questo cristiano, convinto che «come l'anima è nel corpo così sono i cristiani nel mondo». Essi «non si distinguono dagli altri uomini né per regione, né per lingua, né per abbigliamento; non abitano città proprie né usano un gergo straordinario, né conducono uno speciale modo di vivere... Vivono in città greche e barbare, come a ciascuno è accaduto in sorte, seguono i costumi del luogo nel vestire, nel cibo e nel resto, ma testimoniano lo stato meraviglioso e veramente paradossale della loro società... Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera».
È un testo che non cessa di essere un monito e un modello anche per il cristiano nella società moderna. Andando oltre i Padri apostolici, vorrei invitare a gettare uno sguardo anche su uno dei primi grandi intellettuali guadagnati alla causa di Cristo. Si tratta di Tertulliano, un cartaginese di ottima famiglia proconsolare e di alti studi, scrittore originale ed eclettico, la cui vasta produzione viene ora pubblicata in edizione critica con testo latino a fronte nella collana «Scrittori cristiani dell'Africa romana» (ove è in compagnia di un altro grande, Cipriano, vescovo di Cartagine). Nel 207/8 questo brillante apologeta della fede passerà sotto le insegne dei montanisti, seguaci di un certo Montano, un frigio rigorista, uno spiritualista radicale e millenarista. Ed effettivamente a venirci incontro per prima in questo volume, che raccoglie le cinque opere che Tertulliano compose sotto l'influsso di quelle tesi ereticali, è l'Esortazione alla castità, un testo intransigente.
In esso, senza esitazione, lo scrittore cartaginese condanna le seconde nozze dopo una vedovanza, come aveva già fatto in due scritti del suo periodo "cattolico". Significativa è anche un'altra opera dal titolo curioso Scorpiace, ossia «l'antidoto contro gli scorpioni». Infatti, come questi aracnidi infuriano nei giorni roventi della canicola, così gli eretici iniettano i loro veleni mortali quando la comunità cristiana è in crisi. L'incipit del trattato è folgorante nel suo parallelo tra questo animaletto con la sua velenosa coda puntuta e gli esiti degeneri delle perversioni dottrinali. E a proposito di quest'ultime, una figura emblematica fu il "monaco bretone" (o forse irlandese) Pelagio, un personaggio ascetico vissuto a Roma sul finire del IV secolo.