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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2013 alle ore 08:18.

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Scritta da Napoli il 28 novembre 1943, tre giorni prima che il mittente saltasse ventiquattrenne su una mina tedesca nei pressi di Castelnuovo al Volturno, l'ultima lettera di Giaime Pintor al fratello Luigi costituisce una pietra miliare così per la storia come per il mito della Resistenza italiana. All'indomani della Liberazione, quella lettera divenne il simbolo del consapevole sacrificio di una generazione cresciuta sotto il fascismo e immolatasi dopo l'8 settembre per offrire un esempio di antifascismo vissuto: per dimostrare di «non avere trascorso inutilmente questi anni di giovinezza».
Nelle ultime righe della lettera, rassicurando il fratello, Giaime rassicurava se stesso: gli amici più intimi condividevano i suoi «sereni pensieri». Li condivideva «qualcuna delle ragazze» che aveva amato. Li condivideva «Kamenetzki». Misha Kamenetzki, l'ebreo russo suo coetaneo che le vicissitudini di un tempo di ferro avevano dapprima sospinto in Italia, bambino, con la famiglia in fuga dalla rivoluzione bolscevica, poi avevano sospinto in America, nel 1941, con la famiglia in fuga dalla persecuzione razziale. Il Misha che alla fine degli anni Trenta aveva stretto con Giaime un sodalizio talmente stretto da indurre i due enfants prodige delle lettere italiane a firmare i loro articoli con un unico pseudonimo, Ugo Stille: le medesime generalità iscritte sulla tessera falsa da ufficiale della Milizia ritrovata addosso al cadavere di Giaime dilaniato.
Alla vigilia della missione partigiana che gli sarebbe costata la vita, proprio a Misha Kamenetzki, l'alter ego della sua non inutile giovinezza, Giaime Pintor spedì da Napoli a Palermo qualcosa come una penultima lettera: missiva che raggiunse bensì il destinatario, rientrato in Italia da soldato americano grazie allo sbarco degli Alleati in Sicilia, ma di cui andarono poi smarrite le tracce. «Che fine ha fatto quella lettera?» chiederà al padre – decenni più tardi – il figlio di Misha, cosciente dell'importanza storica di un tale documento. «Non lo so, l'avrò persa» sarà la disperante risposta. Ma «com'era possibile?». «"Sono un idiota", si limitò a rispondere con un'alzata di spalle».
L'ultima lettera di Ugo Stille a Ugo Stille: volendo, si potrebbe riconoscere in questo documento paradossale e perduto il fuoco del libro (bellissimo) scritto oggi da Alexander Stille, cioè dal figlio di Misha Kamenetzki che dopo la Seconda guerra mondiale scelse quella di Ugo Stille come la sua nuova identità di cittadino americano, e che così avrebbe firmato migliaia di articoli quale corrispondente da New York del «Corriere della Sera». Perché se pure il libro di Stille riguarda, propriamente, la storia del matrimonio fra i suoi genitori, nella perdita del l'ultima lettera di Giaime a Misha l'autore de La forza delle cose riconosce ben altro che un'imperdonabile distrazione.
Secondo Alexander Stille, «tutti i passaggi più importanti» della vita di suo padre furono «fatti di assenze e di silenzi»: freudianamente, di atti mancati. «Il fatto che abbia perso tutte le lettere di Giaime, la sua decisione di non rientrare in Italia dopo la guerra, e di cambiare nome, la reticenza o il netto rifiuto che ha sempre opposto alle nostre richieste di saperne di più sulla sua vita, il fatto stesso che non ci abbia mai portato in Italia e che si sia rifiutato di insegnarci l'italiano, sembrano far parte di uno sforzo concertato, per quanto assolutamente inconscio, di seppellire il passato e lasciarselo definitivamente alle spalle».
Pesante, molto pesante, era il passato che Misha Kamenetzki voleva incosciamente seppellire: con il doppio esilio della famiglia d'origine, conteneva la minaccia a malapena sfuggita dapprima dei pogrom o del Gulag, poi della Soluzione finale del problema ebraico. Il padre Ilya, avventuroso odontotecnico lituano, e la madre Sara, colta ereditiera russa, erano naufragati da sessantenni sull'Upper West Side di Manhattan, anonimi relitti di un mondo che comprendeva nel vicinato personaggi quali Aleksandr Kerenskij e Isaac Bashevis Singer. Il passato di Misha era vecchio, ingombrante e inutile come la pendola di legno impossibile da riparare che Ilya Kamenetzki si era trascinato dietro dal suo shtetl bielorusso al condominio di New York.
Diverso il bagaglio familiare della madre di Alexander Stille, Elisabeth Bogert: decisamente meno gravoso, anche se non esattamente leggero. Discendeva da una famiglia protestante del Midwest la donna seducente e seduttiva di cui Misha Kamenetzki – ormai Michael U. Stille – si innamorò a una festa nella New York del 1948 e che sposò l'anno dopo alle Isole Vergini. Il padre di Elisabeth, George Bogert, era un sussiegoso giurista dell'università di Chicago che alla figlia adolescente aveva riservato attenzioni ai limiti del morboso. La madre, Lolita, era una curiosa, originale, complicata miscela di mentalità vittoriana, intraprendenza calvinista, femminismo da suffragette.
Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America: nel sottotitolo del libro di Stille, la guerra e la pace non vanno intese unicamente come quelle della grande storia, dal disastro delle guerre mondiali al sollievo della pax americana. Guerra e pace sono anche quelle dell'unione difficile, troppo difficile, fra Misha Kamenetzki ed Elisabeth Bogert. L'incontro-scontro fra due mondi, due culture, due vissuti del Novecento. L'«infelicità condivisa» (come Elisabeth, presaga, poté definirla prima ancora di sposarsi) di un emergente maschio ebreo italo-russo che viveva soltanto attraverso le sue letture e di un'effervescente femmina americana che viveva soltanto attraverso i suoi uomini. Il brusco passaggio dagli amplessi dei promessi sposi su una spiaggia caraibica alle botte maritali del primo viaggio compiuto assieme in Europa. La violenza psicologica latente del rapporto fra un uomo alla ricerca del successo e una donna alla ricerca della felicità.

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