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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2013 alle ore 08:40.

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Tre settimane fa sono tornato sul luogo del delitto. E come nei gialli, le cose erano cambiate. Impercettibilmente, ma abbastanza da modificare il quadro. Andiamo con ordine.

Da tre anni ho riaperto la mia relazione con Milano. Qui ho passato l'adolescenza e dopo dieci anni di sofferta residenza sono scappato a gambe levate verso Roma, verso l'America, verso il mondo – ovunque, ma non Milano. Oppure sì, ma solo il tempo d'un viaggio di lavoro, toccata e fuga, hotel, appuntamento, aeroporto. Ma quella era la fine del Novecento.
Entrando negli anni Dieci, ho scoperto che una delle realtà del presente è che si può fare il pendolare anche tra Roma e Milano e che, complici i treni veloci, questo su e giù non contiene lo stravolgimento psicofisico del prendere troppi aerei. Il treno è puntuale, sistematico, narcotico. Funziona. Così ho continuato a vivere a Roma, salvo passare la metà del tempo a Milano, producendo un discreto esperimento di sdoppiamento. Che non ci ha messo molto a produrre frutti, dal momento che di mestiere mi occupo, a grandi linee, di narrazioni.

Ogni volta che in Centrale percorrevo col trolley l'interminabile marciapiede del Frecciarossa, guardando le pubblicità sui megaschermi in fondo al salone (ho visto Lana Del Rey, ho visto Twilight, ho visto la Pausini, ho visto Bersani perplesso), rinnovavo l'immersione nella diversità combaciante col fatto d'assaggiare Milano, arrivando da Roma. Perché tanto le distanze fisiche si sono accorciate, quanto il canyon mentale che divide i due luoghi s'allarga come in una deriva dei continenti psicologici di cui sono espressione: Roma tracima verso la natura di mediterranea indolenza di cui è residuo, mentre Milano s'aggrappa nervosamente all'istinto continentale che sente dentro, perché qui l'ossessione è di avere indicazioni precise in modo di procedere a fare, qualità-quantità-responsabilità, e via, senza requie, un piano sopra l'altro.

Milano è come un palazzo moderno. Perché di case bisogna parlare, per appoggiare il discorso su una visione postmoderna. E Milano si rifà. Gioca una scommessa, punta forte tra lo scetticismo dilagante. Cosa vuole diventare, l'Abu Dhabi della Padania? A che cosa e a chi servono quei grattacieli smodati, quei passanti vorticosi, quello skyline modellato dal chirurgo plastico, quando la politica locale litiga di Expo in italianissimo stile, di Fiasco Annunciato, di Mancanza di Progetto, di Figuraccia Mondiale? Che gioco è? La grandeur come antidoto al crollo delle illusioni? E che, qui il predominio della finanza non va messo in discussione e in penitenza, come in ogni angolo dello Stivale?
Viaggiavo da nord a sud e ritmicamente percepivo la differenza: a Roma si soffre lo smottamento e s'attende la valanga, a Milano si scavano dighe e c'è chi pensa di organizzare spedizioni all'origine della frana. La città, sbeffeggiata per aver perduto smalto nelle pieghe della Prima Repubblica, è come se mantenesse prodigiosamente il filo del ragionamento. È un fremito, una convinzione condivisa, una resistenza. Provare per credere. E di mio, ho provato a metterci qualcosa. Un amico, il critico d'arte Francesco Bonami, è stato chiamato dalla giunta comunale per dare un contributo creativo alla ripartenza culturale di Milano, producendo iniziative, eventi, idee che abbinassero costi contenuti e capacità di sprovincializzazione, ovvero fossero fattori di proposta e di riflessione e non celebrazioni del talento altrui.

Nel luglio dell'anno scorso, Ranuccio Sodi e io abbiamo girato un piccolo film, chiamato PASM: Provo A Scuotere Milano, fatto di domande più che di risposte su cosa un tipo come Bonami potesse fare per guadagnarsi la paga, in che modo potesse mettere al servizio della città la sua intelligenza, i rapporti col mondo dell'arte, la tentazione di sparigliare. Per svolgere l'inchiesta, siamo andati in giro per una Milano canicolare e cantieristica, incontrando persone e chiedendo loro, oltre a consigli anti-zanzare, quali fossero i bisogni della città, dal punto di vista dello stimolo culturale. È stato interessante, denso, perfino emozionante: perché la sostanza è che Milano non rifiuta di farsi aiutare, ma pretende, per bocca di alcuni ottimi esponenti, di non farsi prendere in giro. Come dire: la questione non è semplice e il compito non è facile: Milano vuole tornare a essere una città-guida dell'Europa d'oggi, ma vuole arrivarci sistematicamente, con un arsenale di obiettivi e strumenti che abbiano tenuta, prospettiva e sbocchi. Bonami proverà a fare il suo per ciò di cui si occupa, ovvero mostre, festival, happening. Altri dovranno fare lo stesso, in campi e settori ancor più accidentati.

Per i nostri incontri, insieme con Bonami in quella settimana d'estate, abbiamo girato per cantieri e lavori in corso, ci siamo infilati gli elmetti di sicurezza, abbiamo disturbato professionisti alle prese coi grattacapi di opere da completare. E ci siamo spesso sorpresi. Ad esempio girando per gli iperspazi della nuova Porta Garibaldi, per le torri esponenziali della Regione e dell'UniCredit e la siepe di grattacieli che fa loro da cornice. Sarà anacronistico, apparterrà a una visione metropolitana nel frattempo scaduta, ma c'è sfida e bellezza in quello che si sta facendo, in un quadrilatero che era disgrazia, abbandono e perdizione. Perciò, che nascano le Varesine! E come a Roma dovrebbero cantare le lodi dell'Auditorium e del Maxxi – che occupano spazi che erano sterpaglie, mignotte e caserme vuote – tutto ciò va sostenuto, non messo alla berlina o affamato. Ecco: quella Milano sull'orlo dell'esaurimento nervoso, ma al tempo stesso al cospetto d'un mezzo miracolo, m'ha coinvolto e mi ha spinto a testimoniarla. Tra qualche anno si dirà che Milano ha saputo fare i conti con una trasformazione necessaria. Non so quante altre città italiane potranno affermarlo.

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