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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2013 alle ore 09:21.

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Quinta elementare, torneo di calcio, semifinale: gironzolavo nell'area piccola degli avversari quando un pallone dalla traiettoria sghemba era precipitato dal cielo. Mentre capitombolavo a terra, sopraffatto dalla mischia, avevo visto con la coda dell'occhio la sfera rotolare in porta e m'ero guardato intorno in cerca del compagno da abbracciare. Invece, notato lo scalmanato amplesso dei fratelli, mi ero dovuto arrendere all'evidenza: avevo segnato io. Con buona pace di Osvaldo Soriano, era stato l'alfa e l'omega della mia carriera calcistica.

Da lì ero passato direttamente alle lettere annaffiate di pernod e sul campo infinitamente più competitivo del bar, condito di sproloqui sul canone occidentale («Tutto Hemingway per una riga di Faulkner, vecchio mio»), avevo sfoderato la stoffa del campione, scimmiottando la finta sbilenca di Garrincha solo nel tragitto verso casa. Purtroppo il tempo non perdona e, dopo una crisi di fiato dovuta a una maratona di scrittura in stile Kerouac, mi sono accorto che era venuto il momento di riprendere la manutenzione.

A pochi passi da casa mi occhieggiava l'ingresso disadorno di una palestra bazzicata per lo più da pensionati e casalinghe, nel novero dei quali riuscivo a intrufolarmi in virtù del mio ambitissimo status di scrittore senza orari né tredicesima. Ho rispolverato un certificato medico firmato dall'amico oculista nel 1998 e le braghette con le quali, secondo la vulgata letteraria, avevo incornato il gol svettando sugli altri difensori. Poi, venduto qualche Millennio Einaudi su eBay, ho raggranellato i soldi per un abbonamento. All'entrata della palestra Arcadia (nome adulterato per discrezione, ma quello originale era anche più idiota), mi ha accolto una segretaria rinsecchita il cui unico tentativo di moto doveva essere il gesto di portare una delle sessanta MS giornaliere a quella vescica che aveva al posto della bocca. Dalle labbra, un miasma acre quanto gli aforismi di Emil Cioran.

«Avrà bisogno di un istruttore» ha bofonchiato.
«Trainer», l'ha corretta una voce tonante alle mie spalle. «Ok, cominciamo. E questi?». Il tizio ha indicato diffidente il pacco di libri sottobraccio che mi avevano rifilato in casa editrice. «A me piacciono i libri-game, dove scegli il finale, dove sei tu lo scrittore», ha esordito allegro, mentre varcavamo le colonne d'Ercole. «Cosa fai nella vita?».
«Lo scrittore».

«Quindi ti piacciono i libri-game».
Nei mesi precedenti, come un guardone davanti a un locale privé, avevo sbirciato all'apertura delle porte scorrevoli, ricavandone un'idea di squallore anonimo. Invece scoprivo che lo squallore poteva avere una personalità: era un buco sotterraneo in cui la luce al neon cadeva gelida come l'acqua della doccia e ovunque aleggiava odore di spugnetta bagnata.

«Cosa ti aspettavi, il Ninfeo di Villa Giulia?».
Be', m'ero consolato: almeno qui non c'erano i nipotini di Moravia. Il mio Virgilio era un "Impersonal Trainer" paffuto che arrivava spaparanzato su un enorme scooter monomarcia, cominciava ogni frase con un condiscendente «ok» e assommava al girovita ogni chilo smaltito dai suoi adepti. È arrivato subito il momento della scheda. Tutto veniva ricondotto a quel foglietto. Era il codice fiscale agonistico, la carta d'identità ginnica, lo scroll del deperimento incombente: on the road to nowhere. Il bravo Impersonal Trainer non ricorda il tuo nome e il tuo volto: consulta la scheda. Se svieni sul tapis roulant, pur continuando a correre, o se scoppi a piangere su una cyclette invocando il fantasma sibillino di Montale («… vidi attorno / curve schiene striate mulinanti», «Ok, prova a utilizzare un cardiofrequenzimetro»), solo la scheda può salvarti dalla fossa comune.

«Ok, di cosa hai bisogno?».
Volevo tornare in forma: qualche peso, un po' di fiato.
«Ok: gag, bike…», ha parafrasato, in un singolare moto opposto a quello che facevo tante volte come traduttore dall'inglese all'italiano.
«Ok, se non ti muovi da un po', meglio cominciare dal muscle's wake up».
«Ahah. Il risveglio dei muscoli».
«Ok, in che senso?».
«Il wake up del muscle».
«Ok, senti: fra dieci minuti torna da me». Dopo qualche grottesco movimento su un aggeggio ispirato alle fantasie malate di Ballard, ho barcollato fino a lui. Notato il pallore, s'è come ridestato. «Ok, meglio se ti fermi. La scheda la finiamo domani». Il giorno dopo mi ha accompagnato alla vasca per l'idromassaggio.
«Ok, questa è la piscina».
Nei giorni successivi pensare a lord Byron ogni volta che mi immergevo in quella morta gora non aiutava: il golfo dei poeti dove il nostro si sbracciava nelle più improbabili gare di nuoto, mangiava pollo e patate ancora a mollo e tornava indietro di buona lena era lontano. Qui dominavano funghi della pelle, orina subdola e a volte la piscina era così affollata che avevo l'affascinante sensazione di nuotare in salita. Nelle corsie accanto si svolgeva una faccenda chiamata aquagym, sagome flaccide che si agitavano come le anime dannate nella bufera infernale di Dante, solo che al posto dell'endecasillabo c'era un brano di Bob Sinclar a palla.

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