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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2013 alle ore 12:57.

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Una scena tratta dal film Viva la libertàUna scena tratta dal film Viva la libertà

Il cinema italiano piange per gli incassi e per le difficoltà sempre più drammatiche di produzione, ma a livello creativo rimane di buon livello. E lo dimostra uno come Roberto Andò, eclettico uomo d'arte (regista di teatro e di opere liriche, tra le altre cose), che era rimasto ai margini del cinema negli ultimi anni (ne sono passati sei e mezzo da Viaggio segreto). Torna sul grande schermo con Viva la Libertà, tratto dal suo romanzo Il trono vuoto (vincitore del Campiello opera prima), una gustosa e arguta cavalcata nella campagna elettorale più pazza del mondo.

Quella di una Opposizione italiana – chiaramente identificabile nel PD – che si trova con il proprio segretario, spento e in calo nei sondaggi, in fuga verso Parigi. Non dà notizie di sé, neanche al fido Bottini (Mastandrea, eccellente nella parte del burocrate), che complice la moglie del politico, Michela Cescon, trova una soluzione folle ma adatta al momento. Coinvolge nel suo piano il professor Ernani, fratello gemello del segretario Oliveri, ma diametralmente opposto: appassionato, audace, idealista. Entrambi sono interpretati da un Servillo come al solito in grande forma, entrambi sono facce della politica, quella che viviamo e quella che vorremmo.

Oliveri è l'attuale campagna elettorale che ci troviamo davanti in questo 2013, spenta e demotivante, Ernani è il sogno di qualcuno che sappia accenderti citando Brecht e abbia il coraggio di rifiutare la logica delle interviste col bilancino o delle alleanze per convenienza. Tutto ciò viene narrato da Andò con squisita leggerezza, con l'ingenuità che si deve alla voglia di cambiare il mondo, con l'entusiasmo di pensare e sperare in un'Italia migliore. E, soprattutto, con un talento nel rendere tutto ciò cinematografico, a livello di scrittura e immagini (Ernani che balla con la Merkel è da Oscar), da applausi.

Film molto politico è anche Promised Land. Gus Van Sant, da Milk, ha virato il suo cinema rarefatto e durissimo in racconti alla Clint Eastwood. E allora cco arrivare una parabola moderna che prende la fredda materia dell'economia, dell'energia, di un capitalismo selvaggio e aggressivo, rendendo tutto sentimenti, vita, storia. Matt Damon viene da un paese in cui l'industria è fuggita, a causa della crisi, rendendo la sua città, in Iowa, un centro urbano fantasma. Va in una città gemella, in un altro Stato americano, a vendere il gas naturale per la sua società, la Global. Finge di fare lo squalo, in verità vuol portare lì quella ricchezza che non ha salvato il suo paesino natale. Non si accorge, però, o vuole solo ignorare quanti e quanto grandi siano i giochi sopra la sua testa. Van Sant cuce un racconto esemplare in pochi chilometri quadrati e grazie a comprimari di altissimo livello – Frances McDormand e Hal Holbrook -, ricordandoci cos'è la globalizzazione, dove ci sta portando la crisi e come la nuova economia nasconda ombre profonde e cupe. Le regole sono saltate e chi gioca ora al tavolo dei potenti, è pericoloso e senza scrupoli.

Non sembra molto lucido, invece, John McClane, il mitico poliziotto che, sempre da solo con i cattivi, è capace di battere chiunque. Eroe anni '80, Bruce Willis è rimasto nei cuori degli amanti dell'action e non solo. Con Die Hard – Un buon giorno per morire si fa affiancare dal figlio, John jr detto Jack, e insieme fanno danni nella Russia che già ci aveva regalato i nemici del primo capitolo. E pazienza se la Guerra Fredda è finita da più d'un paio di decenni. John Moore ci mette un po' di mestiere, ma la regia rimane mediocre, come la performance del "figlio" Jai Courtney, straordinariamente inespressivo. Ma tanto per gli appassionati basta un Willis che spara più battute che pallottole. E non era facile.

Chiudiamo con Il principe abusivo, esordio dietro la macchina da presa di Alessandro Siani. Un film che non entusiasma, anzi, per qualità di scrittura e regia, ma che fa il suo soprattutto quando racconta la trasformazione, alla Pretty Woman, di Siani stesso, da disoccupato cafone a signorino raffinato. Il tutto alla corte della principessa Sarah Felberbaum. Strappa risate nella parte centrale, mentre risulta insufficiente all'inizio e alla fine: da segnalare però un ottimo Christian De Sica (che guarda al papà Vittorio esteticamente e attorialmente) – come sempre ottimo fuori dai cinepanettoni – e a Serena Autieri versione popolana, molto brava e sexy.
Al pubblico piacerà, alla critica meno. Ed è probabilmente quello che Siani voleva.

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