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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:20.

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Sono uscite a gennaio, nella meritoria collana Aforisticamente, le Voci di Antonio Porchia, una delle raccolte di aforismi più significative del Novecento. Nato nel 1886 a Conflenti in Calabria, dopo la morte del padre Porchia si trasferisce con la famiglia in Argentina, dove pratica diversi mestieri e vive una vita modesta e ritirata; muore a Buenos Aires nel 1968. La sua opera letteraria consiste in alcune centinaia di aforismi iniziati a pubblicare su riviste argentine alla fine degli anni Trenta; la prima edizione in volume esce nel 1943, una seconda nel 1948, poi diverse altre nei decenni seguenti. Dall'edizione del 1966 il numero canonico delle Voci è 603.
La notorietà gli giunse nel 1949 con la traduzione e la presentazione francese di Roger Caillois, che diede a Porchia un posto di rilievo nel panorama internazionale dell'aforisma contemporaneo. Tra i suoi estimatori spiccano André Breton, Octavio Paz, Henry Miller, Jorge Louis Borges. Ora le Voci tornano in traduzione italiana a cura di Fabrizio Caramagna, dopo la versione di Ernesto Franco pubblicata dal Melangolo nel 1994.
Porchia propone un aforisma essenziale, asciutto, che intreccia la tradizione della massima classica con la ricca gamma espressiva dell'aforisma contemporaneo (immagini, impressioni, interrogazioni, dubbi, confessioni personali). Egli procede nella direzione di una costante sottrazione esistenziale, di una riduzione al significato ultimo delle cose, che se da un lato illumina la vita dall'altro aumenta invece la percezione del mistero. Porchia accoglie e registra con disincanto gli inevitabili contrasti del mondo, la loro paradossale convivenza, con un intrinseco senso del dolore (e di resistenza al dolore) che accompagna tutto. In questa dimensione quella di Dio è un'assenza che si fa sentire.
Se l'intera ricerca aforistica di Antonio Porchia si concentra in un numero limitato di aforismi (603), sul magistrale esempio di La Rochefoucauld (504), diversa è invece la prospettiva di Mario Vassalle, nato a Viareggio (1928), medico cardiologo e docente universitario, residente negli Stati Uniti dal 1958. Vassalle è studioso di medicina cardiovascolare, attivo soprattutto nel settore della elettrofisiologia cardiaca (egli si definisce "fisiologo del cuore"). Ha finora pubblicato sette libri di aforismi (oltre ad alcuni di poesia e numerosi altri di saggistica scientifica): L'Enigma della Mente (1996), La Realtà dell'Io (2000), Foglie d'Autunno (2006), Conchiglie (2009), Aghi di Pino (2009), Petali (2012) e ora Passi Felpati (2013). Gli aforismi di Vassalle tendono al sistema, puntano alla ricerca metodica e alla sua classificazione, nella storica tradizione medica che sale da Ippocrate al Santorio Santorio della Statica Medicina (1614) e giunge nel Novecento agli aforismi (anti) medici di Guido Ceronetti e a quelli psicanalitici di Davide Lopez e di Cesare Viviani. Ogni libro di Vassalle è composto di mille aforismi, tutti numerati, con testo italiano e con testo inglese a fronte (sempre d'autore); con l'ultimo libro il numero degli aforismi è quindi approdato a settemila. Quelli di Vassalle sono aforismi scientifici e religiosi basati sull'idea che «è la logica che proibisce di non credere». L'aforisma 7000 che chiude Passi felpati è indicativo di tutta la poetica dell'autore: «Amo la mia scienza che ha permesso alla mia piccolezza di intravedere le meraviglie dell'opera di Dio». Il modello inarrivabile dell'aforisma scientifico-religioso è quello di Blaise Pascal, la cui opera è tra i fondamenti della nostra moderna civiltà occidentale. È nei suoi frammenti e pensieri che si squaderna una delle più acute e inquiete indagini sulla natura e sul destino dell'uomo, teso a coniugare esprit de géométrie, esprit de justesse ed esprit de finesse. Nella prova dell'esistenza di Dio, Pascal riprende l'argomentazione tomista a contingentia mundi («Sento che era possibile ch'io non fossi: infatti, l'io consiste nel pensiero; quindi, io che penso non sarei esistito, se mia madre fosse stata uccisa prima che venissi animato; dunque, non sono un essere necessario. Non sono neppure eterno, né infinito; ma vedo chiaramente che nella natura c'è un essere necessario, eterno e infinito»).

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