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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:20.

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Se c'è un filosofo che ha passato gran parte della sua esistenza on the road, questo è sicuramente Giordano Bruno. Perciò i libri che ne raccontano la vita sono sempre così avvincenti. Non c'è bisogno di inventarsi niente per renderla più attraente: la storia è lì, sotto gli occhi di tutti, e sembra fatta apposta per appassionare ogni tipo di lettore, fino a diventare oggetto di culto. Volete mettere il piacere di narrare le gesta del Nolano rispetto alle vite "normali" di un Kant o di un Newton? Oppure di un Darwin, con l'eccezione degli anni straordinari trascorsi a bordo del «Beagle»? Se il piacere di raccontare Kant, Newton, Darwin è tutto mentale, e l'emozione (grande, non c'è dubbio) sta nel ricostruire le grandi rivoluzioni del pensiero di cui furono protagonisti, per Bruno, la sua «nova filosofia» è inseparabile da una vita di migrante tutta avventura, lotte, conflitti: un bel drammone hollywoodiano come quelli che tanto piacciono oggi, e per di più con un finale di partita cupo e tragico. Non per nulla una vita così irregolare e "furiosa" è stata più volte romanzata e rappresentata a teatro. Soprattutto nell'Ottocento: in Germania, come in Inghilterra e, ovviamente, in Italia. Bruno eroe e profeta, immagine perfetta del filosofo ribelle che finisce per trovare posto nel Pantheon della nuova Italia accanto non solo a Dante e Machiavelli, ma anche a Garibaldi e Mazzini. La scoperta dei momenti salienti della sua vita, che avviene soprattutto a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta dell'Ottocento, provoca un crescendo di entusiasmi e di odi viscerali, e trova il suo culmine a Campo dei Fiori, quella mattina del 9 giugno 1889, quando intorno a mezzogiorno, dopo ben tredici anni di estenuanti battaglie, viene inaugurato di fronte a una folla di popolo venuta da ogni parte d'Italia il monumento dello scultore, repubblicano e massone, Ettore Ferrari.
Per avvicinarsi a Bruno, a quello vero, alla sua vita vagabonda e vertiginosa, e provare così a viaggiare con lui, occorre munirsi di una carta geografica dell'Europa. Ed è ciò che bisogna fare anche in questo caso, in occasione dell'ultima biografia a tutto tondo appena uscita in Italia e a lui dedicata.
Dal 1576, dall'età di ventotto anni, iniziava per Bruno una fuga senza fine alla ricerca di un luogo in cui poter vivere e filosofare liberamente. Deposto l'abito domenicano, eccolo prima a Genova e a Torino, poi a Venezia e Padova, infine – passando per Brescia, Bergamo, Milano e Savona – decideva di lasciare l'Italia per dirigersi a Lione e a Ginevra. Qui si fermò circa due mesi aderendo al Calvinismo, ma poco dopo, nell'agosto del 1579, veniva processato per diffamazione e scomunicato. Poi era la volta di Tolosa, dove per venti mesi insegnò filosofia e astronomia, e di Parigi, dove nel 1582 pubblicava le sue prime opere, il De umbris idearum, il Cantus Circaeus, il Candelaio. Poi di nuovo un'altra fuga, questa volta in Inghilterra (forse per la decisione del clero di applicare sul territorio francese le disposizioni stabilite dal Concilio di Trento contro la lotta all'eresia). L'obiettivo è sempre lo stesso: trovare una sistemazione universitaria che gli consenta di proseguire in piena libertà il proprio lavoro. Che però, anche questa volta, non riuscì a ottenere, come subito lascia immaginare un dispaccio di Henry Cobham, ambasciatore a Parigi, inviato a Francis Walsingham, primo segretario della regina Elisabetta: «Intende venire in Inghilterra il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui religione io non posso approvare». Del resto, si chiede Bertrand Levergeois, «perché mai un anglicano avrebbe dovuto provare una qualche benevolenza nei confronti di un domenicano apostata, accompagnato da una scomunica calvinista, il cui pensiero, che si tratti della teorie delle ombre, di mnemotecnica o della sua commedia, aveva preso le distanze dalla teologia?».
Chi leggerà questo libro apprezzerà quanto fecondo sia stato questo periodo della sua vita (con la pubblicazione di alcune delle sue opere più celebri: dalla Cena de le Ceneri al De la causa, dal De l'infinito, universo e mondi allo Spaccio della bestia trionfante), ma anche quanto aspra e violenta fu la reazione che l'accademia oxoniense riversò su questo filosofo di nessuna accademia. «In Oxonia», ricorderà Bruno nella Cena, domina una «costellazione di pedantesca ostinatissima ignoranza e presunzione mista con una rustica inciviltà». E così dopo aver lasciato l'Inghilterra ritornava di nuovo in Francia, per passare in Germania e Boemia. Poi ancora in Germania, a Tubinga, a Helmstedt e a Francoforte, dove restò circa sei mesi, fino ai primi mesi del 1591, curando la stampa di tre poemi, il De minimo, il De monade e il De immenso: libri quasi "sacerdotali", e pieni di geometria "metafisica" e "qualitativa", che nulla hanno in comune con la matematizzazione della natura a cui si richiameranno di lì a poco un Galileo o un Kepler. Infine, arriva la decisione sciagurata di rimettere piede in Italia.
Gli ultimi capitoli sono ovviamente dedicati alle vicende processuali, venete e romane. Sono tra i più efficaci, dove il racconto si fa ancora più veloce e stringente, grazie anche all'impiego costante della documentazione sul processo raccolta da Luigi Firpo. E non c'è una pagina che non mostri attenzione e passione verso la vita e le opere del Nolano: un lavoro intellettualmente onesto, che si rivela un ottimo punto di partenza per chi vuole entrare nell'intricato e multiforme universo bruniano. C'è però una cosa che poteva essere considerata: e cioè che questa edizione italiana esce diciotto anni dopo l'edizione originale francese. Perché non si è sentita l'esigenza da parte dei direttori della collana (intitolata, tra l'altro, proprio «Campo dei Fiori») di procedere a un suo aggiornamento o comunque a una sua integrazione con un'ampia e nuova introduzione?

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