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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2013 alle ore 08:30.

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Viviamo entro un sistema letterario in espansione, quasi un cosmo capace di accogliere e di conferire dignità di studio a sempre nuove costellazioni testuali. Da un decennio almeno a questa parte è il turno delle scritture odeporiche, relative a resoconti scientifici e a narrazioni che trattengono il senso dei più diversi itinerari. Molto diversi paiono pure i metodi d'inchiesta, i criteri di selezione, ma intanto le opere dedicate agli scrittori in cammino si affollano sui palchetti delle librerie. Solo negli ultimi mesi sono da registrare l'antologia riccamente prefata di Ricciarda Ricorda: La letteratura di viaggio in Italia. Dal Settecento a oggi; la spigolante raccolta di Paola Montefoschi: Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano; e soprattutto il secondo volume dei «Meridiani» a cura di Luca Clerici: Scrittori italiani di viaggio. 1861-2000 (il primo trattava il periodo che dal 1700 conduce all'Unità nazionale).
Solido cinquantenne di scuola milanese, Clerici è forse il nostro esperto maggiore sull'argomento. Qualche nota di retroguardia apparsa in questi giorni sui giornali, intesa a polemizzare su assenze e presenze, non sembra insidiarne la levatura professionale né il lavoro condotto. Le due ampie introduzioni che egli ci propone, ragionate, dense di temi critici, e la folta bibliografia posta a suggello dell'opera, rappresentano alcunché di monumentale, di durevole, che difficilmente potrà essere sottostimato dai frequentatori futuri. Ciò che ci troviamo di fronte non è affatto una crestomazia, una scelta tradizionalmente orientata ai testi di maggior risonanza estetica. Di fronte a noi sta piuttosto una stratigrafia, un dosaggio oculato di livelli, in grado di far sì che le parti offerte in esame siano rappresentative del tutto; o meglio ancora si squaderna sotto i nostri occhi un atlante, un portolano, insomma uno strumento storico e tipologico a disposizione di chi voglia conoscere la Travel literature nel suo significato più esteso. Si motiva così la strutturazione interna dei volumi, comprensivi di un ampio settore titolato Italia, dove trovano posto le esplorazioni autoctone; e di una rosa dei venti, Nord-Sud-Est-Ovest, che scandisce le rotte dei viandanti nostrani verso ogni punto del globo: siano essi scrittori letterati, giornalisti, divulgatori, specialisti di qualche disciplina o funzionari in missione politica.
Il vero problema è proprio la dominabilità del corpus. Tanto vasta è la mole dei testi individuati, che anche se messi a perimetro secondo criteri unificanti, questi tendono tuttavia a sfuggire per ogni lato in forza di sottospecificazioni multiple. Lo sforzo ordinatore di Clerici reca in proposito alcuni tratti necessariamente sperimentali; la mappa dell'impero, per così dire, accusa zone ancora incognite, lamenta la scarsezza di approfondimenti localizzati. Convince tuttavia l'incrocio di tendenze che egli mette in evidenza, ovvero le spinte verso una democratizzazione del tipo narrativo, e insieme le reazioni elitarie che incessantemente insorgono a contrasto. Da un lato i resoconti di viaggio a carattere naturalistico, topografico, economico (Antonio Stoppani, Ferdinando Martini, Giovan Battista Pirelli); dall'altro una couche sterniana, o del "viaggio sentimentale", in cui a dominare è il soggettivismo umoroso del viandante (da Vittorio Imbriani a Giovanni Faldella, sino a Savinio, Flaiano, Manganelli). O ancora si consideri l'opposizione, tutta interna al medium giornalistico, tra reportage ed elzeviro viaggiatorio: tra Barzini, Orio Vergani, Camilla Cederna, Severgnini da un lato, e dall'altro Comisso, Praz, Ercole Patti o Carlo Linati. Una specie di snobistico teoreta dell'"adagismo", quest'ultimo, o se si vuole un ecologista avanti-lettera, che nei primi anni Trenta intraprende una memorabile escursione da Milano a San Lanfranco ritto sulla pedana di un rullo compressore, un Breda A33, in grado di assicurargli una velocità di 3 km orari.
Non sono che alcune tra le tante tipologie intrecciate da Clerici con perizia magistrale. Talora, è vero, con qualche appesantimento compilativo: soprattutto nelle premesse ai testi si può incontrare una messe forse eccessiva di notizie, laterali, erudite oltre misura. Né potevano mancare talune sviste: nella scheda dedicata a Bontempelli è ricordato il 1938, quando l'autore di Gente nel tempo rifiutò di coprire la cattedra da cui era decaduto l'ebreo Arnaldo Momigliano (mentre si tratta di Attilio); in quella su Linati è precisato che questi prese servizio al «Corriere della Sera» nel 1922 (mentre vi esordisce l'11 aprile 1924).
Si tratta però di mende secondarie, umanamente inevitabili stante l'estensione poco comune della ricerca; e che qui rileviamo in spirito di servizio, per ripuliture a venire. Certo ci si potrebbe spingere oltre, chiedendo a Clerici una descrizione più puntigliosa del processo per cui una varietà tanto spiccata di reperti tendano ora a confluire entro un dominio latamente – e come si è visto non incontrastatamente – letterario. Rimandiamo il tema ad altra sede, e accontentiamoci per ora di insistere su due altri pregi di cui gode Scrittori italiani di viaggio. Primo: la confluenza strategica che in esso si manifesta tra cultura scientifica e tradizione letteraria, tra gusto del bello e saperi di una borghesità vincente: statistica, scienze naturali, dottrine amministrative. Ai giorni nostri, mentre si discute sulla necessità di riunificare gli orizzonti, un esempio storico come questo, e suscettibile di progresso, potrà ben far comodo.

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