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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 08:24.

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Nel prossimo giugno a Marsiglia si svolgerà un particolare «Cortile dei Gentili», lo spazio simbolico per il dialogo fra credenti e non credenti (i «Gentili», ossia le genti diverse dagli Ebrei, avevano un loro atrio nel tempio di Gerusalemme). Gli ideali «patroni» di questo incontro – organizzato, da una parte, dal Pontificio Consiglio della Cultura e dalla diocesi di questo capoluogo della Regione francese della Provenza-Alpi-Costa Azzurra e, dall'altra, dall'università e dalle varie istituzioni civili – saranno due figure emblematiche, anche se profondamente differenti, della cultura francese: il filosofo cristiano Paul Ricoeur e lo scrittore Albert Camus. Di entrambi, infatti, si celebra il centenario della nascita: il primo, morto nel 2005, è stato uno dei rappresentanti più alti della filosofia ermeneutica intrecciata con la teologia, pur nella distinzione dei loro statuti; il secondo, dalla parabola esistenziale più breve (come è noto morirà in un incidente stradale nel 1960), incarna, invece, un ateismo tutt'altro che agnostico e impermeabile alle grandi questioni della fede.
Di lui ora vorremmo molto liberamente parlare, senza entrare nel merito della sua biografia e della sua complessa ricerca e produzione letteraria e saggistica. A noi interesserà cogliere solo qualche squarcio della sua interrogazione, spesso tormentata, sulla trascendenza: pensiamo soltanto a quel capolavoro che è La peste, un romanzo che può essere considerato come una sorta di nuovo Giobbe del Novecento, con un'analoga densità, intensità e tragicità. La domanda sul male presente nella storia e resistente a ogni soluzione filosofica lacererà sempre l'anima di questo scrittore nato in Algeria. Nell'Uomo in rivolta del 1951, testo capitale per la sua tormentata ribellione etica all'ingiustizia e all'assurdo della vicenda umana, si legge: «L'uomo deve riparare nella creazione tutto ciò che è possibile. Dopo di che i bambini continueranno a morire ingiustamente, anche in una società perfetta. Col suo più grande sforzo, l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma l'ingiustizia e la sofferenza rimarranno e, benché limitate, non cesseranno di essere uno scandalo. Il "perché?" di Dimitri Karamazov continuerà a risuonare».
Anni prima, nel 1944, nel dramma Il malinteso egli aveva messo in scena proprio il silenzio di Dio, come accadrà anche durante la peste di Orano nell'omonimo romanzo del 1947 attraverso le interrogazioni inevase del protagonista, il dottor Rieux. Nella locanda remota e isolata ove talora la padrona uccide i viandanti per depredarli, un giorno giunge suo figlio, fuggito di casa tanto tempo prima e irriconoscibile, con la sposa Maria. Nella notte la madre, per rapinarlo dei suoi averi, lo assassina senza la consapevolezza di colpire suo figlio. Invano al mattino la moglie Maria grida la sua disperazione a Dio che è simbolicamente incarnato dal servo sordomuto della locanda: «Abbiate pietà di me, ascoltatemi, Signore, abbiate pietà di quelli che si amano e sono stati separati!». E il servo a fatica biascica: «Mi avete chiamato?». Maria: «Aiutatemi, ho bisogno d'aiuto, abbiate pietà e vogliate aiutarmi!». Il servo: «No!». E su questo monosillabo cala il sipario. Un Dio muto, indifferente e distante dal dramma di vivere dell'umanità.
È per questo che nel Mito di Sisifo (1942) Camus considererà il suicidio come il problema fondamentale della filosofia. E scriverà: «La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato sullo stesso ritmo… Soltanto che, un giorno, sorge il "perché?"…». È per questo, allora, che egli si pone la questione radicale: «O il mondo ha un senso più alto, o nulla è vero fuori di tali agitazioni». Si affaccia, così, la trascendenza che, però, non è vista come un riparo all'assurdo del presente o come una narcosi degli interrogativi: «Se c'è un peccato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quanto sperare in un'altra vita, sottraendosi all'implacabile grandezza di questa», scriveva in Nozze del 1938. Anzi, come si legge in uno dei racconti della Caduta (1956): «Non aspettate il giudizio finale perché esso si celebra ogni giorno».
Si fa strada, così, una ricerca di una salvezza intrastorica che conserva, tuttavia, in sé i brividi della trascendenza. È, prima, la via della «rivolta» morale espressa nel citato testo omonimo e drammatizzata con le sue contraddizioni nei Giusti, un'opera del 1950 che è stata riproposta proprio come meditazione spirituale «laica» lo scorso febbraio nella chiesa del Gesù a Roma. È, poi, la via della bellezza: «L'uomo non può fare a meno della bellezza, e la nostra epoca finge di volerlo ignorare. Essa non vede il bello perché s'irrigidisce per raggiungere l'assoluto e il dominio», si legge nel dialogo tra il cappellano e Mersault, condannato a morte, nello Straniero, un altro capolavoro del 1942. «La bellezza non fa rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza» (nell'Uomo in rivolta).
Infine, ecco la via dell'amore. Già nel settembre 1937 nei Taccuini annotava: «Dovessi scrivere io un trattato di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle quali assolutamente bianche. Sull'ultima poi scriverei: Conosco un solo dovere ed è quello di amare. A tutto il resto dico no». Sì, perché «questo mondo senza amore è un mondo morto e giunge sempre un'ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio per reclamare il volto di un essere e il cuore meravigliato della tenerezza».

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