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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 08:18.

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Nell'arco di tre decenni, Amitav Ghosh si è affermato come il maggior scrittore indiano di lingua inglese della sua generazione, peraltro ricca di nomi importanti, perché ha saputo coniugare nella letteratura – nel romanzo – istanze che molte ideologie critiche contemporanee dicevano superate: l'ambizione a creare storie ampie e articolate con personaggi e vicende che esprimessero le contraddizioni del nostro tempo, sia quando si riferivano a un preciso passato (le radici del presente), sia quando si soffermavano su un oggi tutto da interpretare, sia quando recuperavano canoni antichi di fiaba e di avventura. Amitav Ghosh, ormai uno squisito signore di mezza età che ricordiamo giovanissimo ai suoi primi passaggi italiani, quando venne scoperto e lanciato da Garzanti sulla scia del successo dei romanzi di Rushdie, è ospite della città di Venezia per il festival «Incroci di civiltà» e ha gentilmente risposto alle domande che gli ho posto, la prima delle quali riguardava proprio questo soggiorno. «Sono coinvolto in un progetto che riguarda il Ghetto veneziano e il suo ruolo nella storia delle relazioni interculturali – ha risposto – è un progetto in fieri, al quale cercherò di dare un contributo sul quale sto ancora meditando».
La mia curiosità sui suoi modelli letterari, sia indiani che occidentali, è da sempre molto grande, ed è cresciuta con la lettura dei primi due volumi della «trilogia del l'ibis», o «dell'oppio», edita in Italia da Neri Pozza. Ghosh si presta gentilmente a ricostruire il suo percorso vocazionale anche se, dice, «è difficile rispondere a una domanda su modelli e influenze» perché per lui «la scrittura è iniziata con la lettura», spiega. «Sono un avido lettore fin dal l'infanzia, quando leggevo sia in inglese sia in bengalese. In seguito ho letto anche in altre lingue. Come scrittore, sono una sorta di "gazza ladra". Ho avuto la grande e singolare fortuna di essere stato esposto a molte diverse tradizioni e forme di scrittura, che mi hanno tutte influenzato in un modo o nell'altro». Ma perché – cosa inusuale se non tra scrittori spesso dozzinali – tanto interesse per il «romanzo storico»? «Molti dei romanzieri che ammiro hanno scritto romanzi storici. Sono sempre stato affascinato dalla storia – anche quando ero bambino. Lo scrittore bengalese che mi piaceva di più era Sharadindu Bandopadhyaya, un autore di romanzi storici le cui storie vertevano su un ragazzo di nome Sadashiv – oggi la chiameremmo narrativa "young-adult". Amavo leggere anche Walter Scott quando ero adolescente. A scuola passavo ore immerso nella lettura di Scott. Ma la cosa interessante è che anche Sharadindu Bandopadhyaya leggeva Walter Scott, quindi non è che le due tradizioni possano essere separate in modo rigoroso. Analogamente, è evidente che Scott era a sua volta influenzato dai romanzi medievali e dai racconti di cavalleria, molti dei quali debitori delle tradizioni narrative asiatiche (Scott di fatto rivisita alcuni famosi racconti arabi su Saladino). Ancora una volta siamo di fronte a un gioco di intrecci – un gioco che nell'opera di scrittori moderni come Borges e Calvino diventa esplicito. Per tutte queste ragioni mi è quasi impossibile parlare di modelli e influenze, che cambiano di libro in libro, di capitolo in capitolo, di pagina in pagina. Mentre scrivevo il mio ultimo libro, Il fiume dell'oppio, il romanzo che mi ha ispirato di più è stato Zayni Barakat. I misteri del Cairo di Gamal al-Ghitani. Parla del Cairo nel Diciottesimo secolo, e ciò che lo rende interessante è l'uso di editti e proclami, la voce ufficiale della storia per così dire. L'uso che ne fa l'autore mi ha conquistato e mentre scrivevo era una delle cose che avevo in mente».
Tra i temi che sembrano stare più a cuore a Ghosh ci sono il recupero di un rapporto con la natura, oltre la violenza che la modernità le ha riservato, e di una dimensione comunitaria dell'esistenza umana, due modi,infine, di esprimere una critica del potere. E tutto questo ha un evidente rapporto con un altro tema che sembra star molto a cuore al nostro scrittore, quello del rapporto tra i fini e i mezzi, dei mezzi che si staccano dai fini, e si rendono autonomi – non è un discorso nuovo. Ma come è possibile oggi per la letteratura riconquistare il terreno di una riflessione etica e filosofica e tornare a parlare dei dilemmi fondamentali dell'esistenza e del dovere di «non accettazione» del mondo così com'è, o di come il potere dell'economia e della tecnologia – che hanno nei suoi romanzi sfondi necessariamente "imperiali" – vorrebbero che fosse? Ghosh non si spaventa per questa domanda eccessivamente impegnativa, ma preferisce riportare il discorso sul terreno più specifico della storia. E del romanzo storico. «L'imperialismo – dice –, è stato certamente la realtà politica dominante dell'India del diciannovesimo secolo, ed è impossibile schivarlo in qualsiasi opera ambientata in quel periodo. Sarebbe come scrivere della Venezia medievale senza citare le Crociate. Ma è importante ricordare che l'imperialismo è stato solo uno degli aspetti della realtà indiana: nello stesso momento le persone vivevano, ridevano, amavano, come le persone fanno ovunque e in qualsiasi circostanza politica. Quando rivolgo lo sguardo a quel secolo, a colpirmi è la resilienza, la resistenza, la volontà di cambiamento e la determinazione di imparare. Come i lettori hanno potuto constatare, ci sono tantissime storie che si dipanano simultaneamente in libri come Mare di papaveri e Il fiume dell'oppio che è impossibile imporre un'unica interpretazione a questo viaggio collettivo. Ma riconoscere che il passato è complicato non significa voltargli le spalle, o per vergogna o per desiderio di guardare avanti. Una delle ragioni è che il colonialismo non appartiene al passato, anche nel subcontinente indiano. Il Pakistan, ad esempio, è in una situazione in cui una forma di ricolonizzazione è una possibilità concreta. L'attuale incarnazione dell'Impero è straordinariamente simile a quella antica, con le sue isole prigioni, la sua vasta rete di carceri, e soprattutto l'instancabile sbandieramento delle sue buone intenzioni».

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