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Questo articolo è stato pubblicato il 12 aprile 2013 alle ore 15:39.

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Non è facile rimanere in piedi in questi periodi di crisi. Doveva succedere prima o poi: la crisi economica e finanziaria sta diventando anche creativa e questo 2013 è costellato di prodotti cinematografici mediocri, italiani e stranieri. Fortunatamente, però, questo fine settimana fa eccezione, almeno in parte. E così, nella penisola, ci si può rallegrare per due film di ottima qualità e che, soprattutto, hanno una gran voglia di rischiare.

I due autori che vengono dal sud, Luigi Lo Cascio e Pappi Corsicato, vanno applauditi: le (poche) ingenuità che si ravvisano nei loro affascinanti racconti, infatti, vanno perdonate per l'audacia con cui intraprendono strade altre e alternative rispetto agli stereotipi artistici e industriali di questi ultimi anni. Esordisce alla regia l'attore con "La città ideale", un noir doloroso e dolente che graffia l'anima dei benpensanti.

Il protagonista, infatti, sembra la fotografia della sinistra italiana, velleitaria e moralista, ma poi fallace al confronto con la realtà: Michele Grassadonia si trasferisce in quella che considera, appunto, la città ideale, Siena. Vuole viverci a impatto zero, senza inquinare, senza usare energia, ecologista fino al fondamentalismo. Viene coinvolto in un incidente automobilistico e pur provando a comportarsi da cittadino modello – o quasi - viene ingoiato da una spirale kafkiana, formata dalla sua falsa coscienza in conflitto con le sue paure e dalle regole di una società senza morale ma moralista.

Lo Cascio dipana questa trama complessa con bravura, usando i toni del noir come strumento di indagine esistenziale, politica, filosofica e soprattutto emotiva, racconta con un linguaggio nuovo e allo stesso tempo classico una parabola illuminante e inquietante in cui si inseriscono due donne: la madre (Aida Burruano, che lo è anche nella vita, bella sorpresa) e la bellissima Catrinel Marlon. Schiaffeggia un certo pensiero radical chic e inciampa solo per qualche minuto, a metà del film, quando si attorciglia su se stesso e su qualche autorialismo di troppo.

Che non ha, di sicuro, Pappi Corsicato, squisitamente pop, in equilibrio tra trash e sperimentazioni visive e di genere. Il cineasta partenopeo ci offre una riflessione su tv e bellezza di alto profilo, declinandolo però con un linguaggio cinematografico che va dal cinema elegante e un po' barocco del primo dopoguerra all'horror, dal disaster movie surreale alla soap opera. Alessandro Preziosi e Laura Chiatti – bellissima iconta tv, qui, che ci mette la faccia, in tutti i sensi, anzi le facce – giocano con la loro avvenenza, la usano e ne fanno strumento recitativo attivo. La storia è semplice, la chiave di lettura molteplice e bravi sono anche i comprimari Iaia Forte e Lino Guanciale. "Il volto di un'altra" è uno di quei film che non finiscono in sala ma crescono e prendono forma con il tempo. Un gioiello, per chi vuole capirlo e amarlo, raffinato e cult persino nei nomi dei protagonisti Bella e René, nonché nei costumi, nelle scenografie e in una scrittura allo stesso tempo lineare ed elaborata.

Ottime anche le prove dei documentaristi Mario Balsamo e Alina Marazzi, alle prese con un genere ibrido, condizionato dal cinema del reale ma contaminato dalla finzione. "Noi non siamo James Bond" è un on the road in cui malattia e (ri)scoperta di sé vengono trattati con leggerezza, ironia, dolcezza e lucidità. Balsamo e Guido Gabrielli, amici in un tempo andato, si ritrovano e insieme superano una grande avversità attraverso un momento di vita comune e solidale. Scritto d'istinto e di ragione, con equilibrio ed emozione, sa intrattenerti, farti riflettere, appannarti gli occhi per la commozione e poi divertirti. Ben più duro e complesso è "Tutto parla di te", nuova riflessione dell'ottima Alina Marazzi sulla maternità: ci aveva già conquistato, anni fa, con lo splendido "Un'ora sola ti vorrei". Ora esce dalla sua storia e guarda alla figura archetipica della genitrice per demolirne l'ideale anacronistico, santificazione divenuta gabbia, per ricostruirla raccontando chi odia i propri figli per troppo amore, paura e solitudine.

Dopo Cattani e le due Comencini, si torna sulla figura della donna come essere umano "obbligato" a vivere in felicità la condizione speciale ma complicatissima della maternità. Con una sorta di Caronte-Virgilio che sul proprio viso vive e disegna tante piccole e grandi tragedie quotidiane (Charlotte Rampling), Alina Marazzi porta avanti un film non facile né immediato, ma profondo, sensibile e doloroso. Non si può né si deve guardarlo distrattamente, per i contenuti e una forma che non approfitta della forza delle parole e delle visioni che suscitano, ma che invece ne è sempre all'altezza, da immagini antiche a animazioni delicate.

Di sicuro questo discorso, invece, non vale per "Oblivion". Attesissimo, costato 140 milioni di dollari, diretto da un regista "nerd" molto stimato dopo "Tron: Legacy" (apertura di credito incomprensibile, visto il pessimo esordio), in questo nuovo kolossal troviamo il Bignami della storia della cinefantascienza più o meno contemporanea: da Duncan Jones alla Pixar di Wall-E, da Nathan Never (la scena nella baita tra 33 giri e libri antichi sembra copiata di peso dall'eroe bonelliano) a La guerra dei mondi (tripodi e trivelle pari sono).

Con Matrix a far da sottotesto, perché non se ne poteva fare a meno, con Morgan Freeman che non dà pillole ma spara sentenze. Non si può sparare contro "Oblivion", ma l'impressione, alla fine, è che non muova nulla nello spettatore: discreto a livello estetico, sufficiente come intrattenimento (nonostante un inizio faticosissimo), come sempre soddisfacente Tom Cruise, che a sorrisini e smorfiette ora preferisce l'esposizione dei suoi addominali da splendido cinquantenne e oltre. "Oblivion" è come la protagonista Olga Kurylenko: sexy ma allo stesso tempo inutile e decorativo. Troppa carne al fuoco, e rimasta per lo più cruda: Kosinski strizza l'occhio agli appassionati, offre il fianco ai fantatici, ma rimane sempre superficiale. Rimanendo alla metafora carnivora, se i grandi classici citati sono tagli nobili, la sua è carne in scatola. Commestibile, ma dimenticabile.

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