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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2013 alle ore 08:18.

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Con le scarpe da ginnastica scure abbinate a un gessato nero a righe bianche, Peter Greenaway sferra il suo attacco contro l'immobilità e il conservatorismo in quello che nel XVII secolo fu il tempio dell'avanguardia a Roma: Palazzo Barberini. Qui Urbano VIII fu abile sperimentatore, dietro consiglio di una corte di artisti, di mescolanze tra pittura, architettura e scenografie, e qui Pietro da Cortona, contaminatore per eccellenza di linguaggi, fondatore del Barocco italiano, dipinse nel 1639 Il trionfo della Divina Provvidenza, una composizione spettacolare e inedita per l'epoca di corpi quasi scolpiti nei colori, su cui si librano in volo colossali api araldiche.
Uno stupore, una meraviglia che ancor oggi rapisce i visitatori e che offre il destro a Greenaway per infliggere una scossa al pubblico, raccolto sotto quel prezioso soffitto per la lectio magistralis Come raccontare un'opera d'arte, nell'ambito della rassegna «Il gioco serio dell'arte» curata da Massimiliano Finazzer Flory. Con una sferzata elegante, da par suo, accusa gli astanti di essere una massa di analfabeti visuali, facendo a pezzi l'educazione occidentale che ci nutre solo di letteratura e i registi, schiavi di sceneggiature e di dialoghi. «Propongo la mia idea blasfema di cinema, una nuova divinità fatta da un computer, un telefono cellulare e una telecamera».
Abbacinato dalla bellezza della Galleria di palazzo Barberini diretta da Anna Lo Bianco (con il naso per aria la apostrofa con ammirazione: «Lei è responsabile di tutto questo?»), si aggira tra capolavori come Giuditta e Oloferne (1599) di Caravaggio o La fornarina (1518-1519) di Raffaello sgranando gli occhi. Una culla ovattata per uno come Greenaway, pittore egli stesso, amante del Barocco, del Rinascimento e dei fiamminghi, che da sempre si propone come dirompente anello di congiunzione tra arte e cinema, prediligendo nei suoi film l'inquadratura, l'uso dei colori, l'effetto visivo alla trama. Una tendenza chiara già a partire dal suo secondo lungometraggio, I misteri del giardino di Compton House (1982), storia di un paesaggista coinvolto in un giallo, i cui disegni diventano indizi di un crimine, e ancor più con Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante (1989), che ha al suo centro un dipinto di Paolo Veronese, La cena in casa Levi (1573), e uno di Frans Hals, Il banchetto degli ufficiali della Compagnia di san Giorgio (1616), attorno a cui si dipanano storie di tradimenti, torture e uccisioni, viltà e cannibalismo. Una fotografia spietata della società dei consumi, antithatcheriana – nessun commento sulla fresca scomparsa dell'ex primo ministro britannico – tra eros e thanatos, punti cardinali nelle opere di Greenaway. «Nel cuoco ho cercato di capire e usare lo spazio come un architetto – sottolinea Greenaway, mentre gli occhi ogni tanto scappano per posarsi sui dipinti – e di orchestrare i personaggi come in una coreografia, il cui demiurgo è il cuoco e in cui gli attori sono dei ballerini». Il doppio binario, noir e architettonico, ricorda Cronaca di un amore (1950) di Michelangelo Antonioni, dove la prevalenza del paesaggio urbano (una Milano e una Ferrara postbelliche, prive di auto in parcheggio, grazie a cui si percepisce la geometria delle strade e la linea dei palazzi) si coniuga a una trama hitchcockiana con un gusto teatrale, arricchito dagli abiti raffinati ed eccentrici di Lucia Bosè. «Io mi sento un architetto e credo che Antonioni abbia avuto la mia stessa formazione. Ho amato molto la sua trilogia dell'incomunicabilità, L'avventura, La notte, L'eclisse. Antonioni ha girato questi film senza soluzione di continuità (1960, 1961, 1962, ndr) e li ho sempre guardati come un'opera unica – Greenaway si concede una pausa –. C'è un gioco in cui sono abili i giornalisti, secondo cui ai registi è permesso girare solo tre buoni film. Di solito riesce il primo, quello di mezzo e quello di fine carriera, ma non sempre. Per esempio, Alain Resnais, che amo molto, ha realizzato aenza sosta tre grandi pellicole Hiroshima mon amour, L'anno scorso a Marienbad, Muriel, il tempo di un ritorno. Alcune volte i capolavori sono diluiti nel tempo, altre concentrati. Chissà cosa porterà questo giochino su di me...».
Ma poi, forse stimolato dalla visione di Giuditta e Oloferne di Caravaggio alle sue spalle, incalza con la lotta contro la cinematografia seduta e tradizionale: «Sono convinto che gli architetti e i pittori abbiano una spiccata capacità visiva e che solo grazie a essa sia possibile abbandonare un cinema basato sui testi, che alimenta un'industria autoreferenziale. François Truffaut sosteneva che il binomio "regista inglese" è un ossimoro, visto che continuiamo a riprodurre sul grande schermo solo romanzi di Jane Austen o delle sorelle Brontë e siamo incatenati a Shakespeare».
E certo Greenaway è un inglese anomalo, viste le performance multimediali in cui trasforma capolavori dell'arte mondiale usando bagliori, numeri e tracce audiovisive. Tra queste, Ronda di notte (1642) di Rembrandt al Rijksmuseum di Amsterdam nel 2006, L'ultima cena (1494-1498) di Leonardo da Vinci a Milano nel 2008 e Le nozze di Cana (1563) di Paolo Veronese alla Fondazione Cini nel 2009. In queste operazioni, ogni tela viene "sezionata" in minimi particolari da fasci di luce, «assolutamente innocui» tiene a precisare l'artista, e di ombre che raccontano i retroscena e il significato che il pittore voleva dare al quadro. Così il Cenacolo vinciano rende lo spettatore partecipe del dolore di Gesù prima della crocifissione, scomponendo i personaggi e isolando la sua solitudine con un gioco di riflessi e ombre e tinte cangianti. In più, nelle Nozze di Cana si impadroniscono del dipinto le voci dei commensali, che commentano il miracolo dell'acqua trasformata in vino e rendono viva e attuale quella scena.

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