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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2013 alle ore 14:31.

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Si narra che il principe Grigorij Potëmkin – ammiraglio e comandante delle forze militari russe, amante favorito dell'imperatrice Caterina nonché eponimo dell'omonima nave corazzata resa immortale da Ejzenstejn prima ancora che da Fantozzi – avesse escogitato alla fine del Settecento un metodo infallibile per impressionare l'amata sovrana e i dignitari che l'accompagnavano in visita alla Crimea appena conquistata. Lungo le anse del fiume Dnepr aveva fatto costruire finti villaggi in legno e cartapesta davanti ai quali una folla di figuranti vestiti da contadini e pastori acclamava il corteo regale in navigazione. Dietro quelle scatole vuote il panorama era del tutto diverso, ma tanto doveva bastare per dare l'illusione di un'amministrazione che godeva di buona salute e ottimo consenso.

I villaggi Potëmkin sono niente più che una leggenda, almeno secondo gli storici. Ma ci aiutano a capire l'enorme facciata di legno e cartapesta di questa Italia 2013. Scenografia del ventennio perduto, di cui siamo prigionieri dagli inizi della Seconda repubblica e dietro la quale si estende un panorama ben lontano da quello che si riesce a vedere dal fiume. Un grande villaggio Potëmkin nel quale siamo confinati, forse non tutti figuranti festosi e tuttavia costretti a osservare uno spettacolo che va avanti da più di vent'anni. Ogni anno uguale a se stesso, ma sempre più stanco e ammaccato. Perché nel frattempo le speranze con cui erano state tinteggiate quelle facciate si sono logorate, senza essere sostituite. È accaduto tanto con la grande speranza del berlusconismo, disegno di liberazione degli italiani trasformatosi nella glorificazione dell'immobilismo arci-italiano, quanto con la speranza leghista di affidare ai piccoli produttori del Nord la missione di restituirci autonomia e protezione dallo strapotere dello Stato. Ed è accaduto all'eterna e rinnovata speranza di avere finalmente anche in Italia una sinistra delle riforme e dell'innovazione, che vent'anni dopo aver scavalcato comunismo e post comunismo si ritrova a inseguire nel grillismo il nuovo miraggio di un'alterità dalla quale non si è mai davvero separata.

Uscire dal ventennio perduto, abbandonare il "villaggio Potëmkin" nel quale gli italiani sono stati confinati. È l'obiettivo minimo di chi voglia davvero far girare pagina al nostro Paese. A patto di voler abbattere la scenografia che vediamo e rivediamo dagli anni Novanta per scoprire finalmente il panorama che ne è stato troppo a lungo nascosto. Senza alcuna nostalgia per quello che c'era prima della Seconda Repubblica. Perché quel "prima" non tornerà, e dovremmo tutti metterci l'anima in pace. Non torneranno i linguaggi, i temi, le immagini di quegli anni Ottanta che sono stati certamente straordinari, ma che si sono allegramente suicidati nel grande falò della Prima repubblica. Non torneranno, così come dopo il ventennio fascista non tornarono i temi di un regime liberale che era imploso su se stesso né le classi dirigenti che l'avevano condotto al macello. Chi guidò l'Italia dopo il fascismo, sia a destra che a sinistra, era cresciuto in quel ventennio assorbendone fino in fondo il mutamento di linguaggi e ritualità che aveva reso l'Italia del 1945 tutt'altra cosa da quella del 1922.

Uscire dal villaggio è prima di tutto saper parlare a quegli italiani che sono diventati adulti negli anni della Seconda Repubblica. Possibilmente nella loro stessa lingua, condividendone l'immaginario e le debolezze. Perché voltare pagina significa innanzitutto far pace con se stessi, e dunque abbandonare la tentazione di cambiare gli italiani se non si è riusciti a cambiare l'Italia. Il ventennio perduto della Seconda Repubblica è stato accompagnato dalla cantilena dolente che voleva gli italiani colpevoli e inadeguati. Colpevoli ora di aver voluto il berlusconismo ora di avere assecondato il centrosinistra, ma sempre inadeguati per ogni innovazione e non meritevoli di niente più che non fosse quello che già passava il convento.

Se il berlusconismo ha esaltato i comportamenti illegali di tanti di noi rendendoli un paradigma a cui tutti si sarebbero dovuti adeguare, dall'evasione fiscale al disprezzo delle regole, buona parte della sinistra ha risposto con la raffigurazione uguale e contraria di una comunità nazionale da raddrizzare. Perché gli italiani non solo non reagivano con sdegno unanime alle provocazioni del Cavaliere e dei suoi complici, ma talvolta si permettevano persino di garantire a tutti costoro una massiccia dose di consensi elettorali. Da troppi architetti del villaggio di cartapesta, incapaci di accettare gli italiani per quello che sono, l'Italia è stata descritta come una nazione sbagliata. Ma parafrasando un celeberrimo Kant, «da un legno storto come quello di cui sono fatti gli italiani, non si può costruire niente di perfettamente dritto». E riconoscere finalmente gli italiani nella loro natura di popolo di buoni e cattivi, che la politica non ha il compito di risanare moralmente ma semmai di mettere in condizione di fare il meglio per sé e per la propria nazione, è il primo passo per abbandonare il villaggio. Guardando finalmente verso quello scenario di caratteristiche e qualità su cui scommettere per capovolgere la retorica del declino.

Il villaggio Potëmkin è, prima di tutto, un'illusione ottica. La sovraesposizione parossistica della politica e dei suoi affaticati figuranti nasconde al pubblico i veri protagonisti della vita del nostro Paese. È mai possibile che tutti conoscano nomi come Santanché e Scilipoti – che rimbalzano ogni giorno dalle pagine dei giornali agli schermi televisivi –, mentre nessuno ha la più pallida idea di chi siano Riccardo Donadon e Massimo Banzi? Eppure Donadon ha creato con H-Farm una piccola Silicon Valley a un quarto d'ora dall'aeroporto di Venezia, unendo il meglio dell'esperienza degli incubatori d'azienda a stelle e strisce con la vocazione italiana al design su misura. E Banzi – con il suo software Arduino – è uno dei fondatori di quella che alcuni definiscono la nuova rivoluzione industriale: quella dei prototipi digitali e delle stampanti 3D. Come loro, migliaia di ricercatori, imprenditori, sindaci e leader del volontariato lavorano intorno a noi con le radici ben piantate nell'eccellenza della tradizione e la testa rivolta alle frontiere dell'innovazione. Ma nessuno ha il tempo di occuparsi di loro perché tutte le energie sono concentrate sull'analisi del retroscena dell'ultimo scambio di insulti tra due portaborse di terza categoria. In Italia si parla troppo di politica e troppo poco di tutto ciò che fa la forza e la bellezza del nostro Paese.

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