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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2013 alle ore 19:05.

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Una scena del film «The Imigrant»Una scena del film «The Imigrant»

James Gray torna a emozionare il Festival di Cannes: cinque anni dopo lo struggente «Two Lovers» (titolo tra i più apprezzati dell'edizione 2008), il regista americano presenta in concorso «The Immigrant», pellicola dai toni melodrammatici che conferma il suo talento.

Ambientato nella New York dei primi anni '20, il film ha per protagonista Ewa, una ragazza polacca che, insieme alla sorella Magda, decide di emigrare negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Arrivate a Ellis Island, le due saranno costrette a separarsi: Magda, affetta da tubercolosi, viene messa in quarantena. Rimasta sola in una terra sconosciuta, Ewa finirà tra le grinfie di Bruno Weiss, un uomo senza scrupoli che la costringerà a prostituirsi per potersi mantenere.

Il cinema di James Gray (vincitore, a soli venticinque anni, del Leone d'Argento alla Mostra di Venezia 1994 con «Little Odessa») ha sempre raccontato la fine del sogno americano, in particolare dal punto di vista di quegli immigrati europei (di prima, seconda o terza generazione) che s'illudevano di trovare la terra promessa sull'altra sponda dell'Atlantico.

Ispirandosi ai racconti dei suoi nonni, arrivati negli Stati Uniti dalla Russia durante il grande esodo post prima guerra mondiale, il regista imprime alla vicenda di Ewa una portata universale che ricorda diversi titoli del cinema muto: dalle comiche dal sapore amaro di Charlie Chaplin («The Immigrant» è anche il titolo di un suo film del 1917) ai drammi dell'austriaco Georg Wilhelm Pabst. Grazie a una grande cura formale, in particolare per quanto riguarda la ricostruzione storica, Gray riesce a nascondere (almeno in parte) i brevi passaggi a vuoto di una pellicola a tratti ridondante.
Nel cast, gara di bravura tra Marion Cotillard (Ewa) e Joaquin Phoenix (Bruno Weiss).

In concorso anche «Michael Kohlhaas» del francese Arnaud des Pallières. Il titolo fa riferimento a un venditore di cavalli del sedicesimo secolo, interpretato da Mads Mikkelsen, che conduce un'esistenza semplice e felice insieme alla sua famiglia. La sua vita tranquilla verrà sconvolta da una grave ingiustizia subita: deciso a vendicarsi, l'uomo formerà un piccolo esercito pronto a combattere per ristabilire i suoi diritti.
Ispirato a un romanzo di Heinrich von Kleist del 1811, «Michael Kohlhaas» è un prodotto piuttosto piatto e scontato nell'andamento narrativo. Il regista vorrebbe proporre un contenuto di denuncia, sulle umiliazioni subite dai più deboli, ma il suo messaggio si perde tra le pieghe di una sceneggiatura scritta frettolosamente. La bravura di Mikkelsen non basta a giustificarne la presenza all'interno della competizione principale.

Ancor più deludente è «Henry», opera seconda dietro la macchina da presa di Yolande Moreau (dopo «Quand la mer monte…» del 2004) con Pippo Delbono come interprete principale. Titolo di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs, il film parla dell'incontro tra due persone sole e provate dalla vita: Henry, un cinquantenne appena rimasto vedovo, e Rosette, una donna con un leggero ritardo mentale che sogna l'amore e la normalità.

Ricattatoria e retorica nella messa in scena, «Henry» è una pellicola forzata e poco spontanea.
Yolande Moreau ha dimostrato buone doti di attrice (da ricordare in «Séraphine» di Martin Provost o ne «L'esplosivo piano di Bazil» di Jean-Pierre Jeunet) ma il suo passaggio alla regia appare ingenuo e ancora prematuro.
Pippo Delbono, poco a suo agio lontano dal palcoscenico, recita in maniera artificiosa e poco intensa, non riuscendo a rendere credibile il suo personaggio.

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