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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2013 alle ore 08:29.

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Se si escludono i nomi di Mastronardi, Ottieri e Volponi, i libri che hanno raccontato l'Italia industriale rischierebbero di passare sotto silenzio, di entrare in un orizzonte senza precisa connotazione cronologica o addirittura di rimanere vittime di un pregiudizio critico. Il tema stesso, fondamentale in un secolo di trasformazioni come il Novecento, risulterebbe relegato solo a qualche titolo di notevole qualità, ma tutto sommato periferisco ed esiguo per numero rispetto ad altri, collaterali filoni narrativi. Eppure così non è. La letteratura di ispirazione aziendale è una specie di ossatura che accompagna le vicende italiane dagli anni Trenta (quando il termine progresso richiamava le immagini epiche delle ciminiere e il suono delle sirene operaie) e le traghetta a un tempo a noi vicino, il periodo oltre il Duemila, segnato dall'eclissarsi del tradizionale concetto di fabbrica o dal suo trasformarsi in altro.
Dunque è il racconto di una nazione, la nostra, che da Paese a vocazione agricola ha modificato le rotte fino a raggiungere un ruolo di potenza industriale. Ma è, nel contempo, un approfondito dibattito sulle forme del moderno, sul confronto dialettico tra uomini e macchine, sul rapporto tra lavoro manuale e incarichi dirigenziali, sullo «smottamento dell'Italia contadina» – scrive Giorgio Bigatti in uno dei saggi d'apertura – «e la disordinata fuga dalle campagne». Tutto ciò rende compatta la materia confluita nei testi di Fabbrica di carta (l'antologia che per la prima volta prova a raccogliere le testimonianze di questa letteratura), ne fa una galassia di argomentazioni così estesa e capillare da essere visibile perfino agli occhi dei non specialisti, dispiega una serie di elementi che agiscono sia sulla struttura di ciascun brano, sia nella scelta dei contenuti, tanto da determinare una tipologia letteraria davvero autonoma. Numerose ragioni, dunque, stanno dietro a questo volume: analizzare i fenomeni di una scrittura dalla natura politecnica e impura, tracciarne il perimetro e le linee di attraversamento, mettere ordine dentro un universo di parole magmatiche con l'obiettivo di ricostruire l'«identità italiana» che «è anche industriale», suggerisce Antonio Calabrò nell'introduzione. Ma se la letteratura è paradigma di una società, è pure resoconto antropologico, indagine su un presente che si fa memoria, geografia di esperienze a più voci. Da qui l'idea di disporre i materiali per nuclei fondanti: il «laboratorio Vittorini» (che accoglie gli autori venuti alla luce nella collana dei Gettoni e nelle pagine del «menabò»), il ciclo di scritture olivettiane, le cronache delle prime, pionieristiche «visite in fabbrica» (commissionate dai più importanti house organ come «Pirelli», «Civiltà delle Macchine», «Il Gatto Selvatico»), le indagini sul paesaggio urbano e sulle periferie.
Indubbiamente una parte cospicua dei brani trova il punto di coagulo intorno al personaggio dell'operaio: figura capostipite di questo universo, osservata in prospettiva frontale o di sbieco, ma pur sempre erede di una tradizione che fissa nell'homo faber il proprio archetipo. Il suo destino di personaggio dal volto multiforme esprime i sintomi della sofferenza e del dolore, però manifesta il desiderio di capovolgere i vincoli di subalternità, rende omaggio al piacere di produrre oggetti (dall'accessorio manifatturiero alla macchina da scrivere, dall'elettrodomestico all'automobile), contribuendo a elevare moralmente il Paese, a sentirsi parte, nonostante tutto, di quella grande stagione di redenzione collettiva che è stato il miracolo economico.
È vero che non mancano pagine che ritraggono un'industria triste e severa (e il brano tratto da Tempi stretti di Ottieri ne dà ampia testimonianza), un luogo dai connotati simili a quelli di un inferno dantesco piuttosto che all'aria rarefatta di un paradiso riscritto in chiave tecnologica. Tuttavia non è difficile condividere ciò che scriveva Calvino a Ottieri in una lettera del 15 maggio 1956 e cioè che le fabbriche sono anche «una via di libertà», un viatico verso uno status di appagamento materiale che non tarda a manifestarsi quale estrema, anche se effimera, dimensione di felicità. Una vita da tuta blu, dotata di comfort, figlia del benessere, può essere specchio di una condizione di fatica, ma è pur sempre un miraggio degno di essere vissuto. Va da sé che un fenomeno di tale portata sia entrato di prepotenza nell'immaginario di una nazione vissuta a lungo nella fame di civiltà, nel mito del posto fisso, adescata dalle lusinghe del consumismo e consapevole fino a un certo punto che il prezzo da pagare fosse caro. In questa ambiguità si nascondono i sintomi di un dissenso latente. Se agli operai spetta il compito di produrre, agli intellettuali di fabbrica – i chierici al servizio della comunicazione – si addice il ruolo delle cassandre. Mentre gli uni diventano crocevia di confitti idoleogici e tensioni sociali, gli altri, simili a tanti sperduti Orfei tra le macchine (questo il titolo dell'altro saggio d'apertura), sono il riflesso di una lenta e per alcuni versi dolorosa macerazione interiore, spersa nel dubbio se porre il talento a disposizione del prodotto aziendale non sia una forma di complicità o un tradimento o addirittura una sorta di persuasione occulta. Fabbrica di carta non scioglie il dilemma, così come non lo fanno le opere da cui sono tratti i testi. E la sensazione che rimane è quella di un processo di sviluppo apparentemente lungo e poi in rapido declino, un momento di euforia che nel giro di due generazioni ha mutato radicalmente il volto di un popolo e ha lasciato, a ricordo di un passato finito troppo presto, qualche mostro di acciaio ricoperto di ruggine, qualche cattedrale nel deserto che aspetta d'essere demolita.

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