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Questo articolo è stato pubblicato il 02 giugno 2013 alle ore 08:37.

«La fama è come un fiume che porta a galla le cose leggere e gonfie e manda a fondo quelle pesanti e massicce». Saggio come sempre, Bacone nei suoi Essayes ci ammoniva sulle regole stravaganti della fama. In un tempo così "smemorato" come il nostro, queste regole si fanno ancor più rigide ed è per questo che può diventare utile anche la prassi un po' superficiale di commemorare gli anniversari. È, infatti, un modo per ripescare dal fondo non solo le eredità culturali "pesanti e massicce", ma anche quelle di medio calibro ma pur sempre significative. È il caso della proposta che ora suggeriamo, menzionando il centenario della nascita (caduto lo scorso 13 gennaio) dello scrittore parigino Gilbert-Pierre François Cesbron. Anche se la distanza letteraria e ideale è notevole, lo accostiamo in dittico antitetico a Camus, del quale ugualmente ricorrono i cento anni dalla nascita, già da noi evocati in queste pagine.
Parlo di antitesi perché, se Camus fu un ateo tormentato e "spirituale", Cesbron fu, invece, un cattolico appassionato, pronto a colorare con la sua fede le sue pagine che allora ebbero un successo clamoroso, ma che poi lentamente sprofondarono nel fiume dell'oblio. Egli, comunque, s'inseriva nella genealogia gloriosa del cattolicesimo intellettuale francese che allineava nomi del calibro di Péguy, Bloy, Huysmans, Jammes, Claudel, Bernanos, Jacob, Mauriac, Béguin, Mounier, Maritain, Grosjean e così via. La sua esistenza professionale fu sostanzialmente dedicata alla radio e al giornalismo; la sua scelta interiore recò, invece, sempre l'impronta della morale cristiana alla quale i suoi romanzi si ispirarono fino al punto da trasformarsi in veri e propri soggetti a tesi, a partire naturalmente dal principio basilare dell'amore fraterno, il primo e decisivo precetto di Cristo.
Trasformando il celebre Cogito ergo sum cartesiano, Cesbron scriveva nel suo Diario senza data (1964): «Amo, dunque sono. Ecco il mio inizio e la mia fine, e tanto peggio per Cartesio! Nel momento in cui smetto di amare, smetto di essere: sembro soltanto, divento doppio; ne soffro e sono umiliato». In pratica, il suo motto diveniva Amo ergo sum, sulla scia del mirabile inno all'agápe, la "carità", di san Paolo per il quale «se non ho l'amore, sono un nulla, un bronzo che risuona, un cembalo che tintinna» (1 Corinzi 13,1-2). A questa stella polare direttamente o implicitamente fanno riferimento le sue molteplici opere, dalle raccolte poetiche ai tanti romanzi, dalla vasta produzione saggistica fino ai testi teatrali. In questo piccolo mare di scritti è spontaneo citare una trilogia dal successo folgorante (e come spesso accade, sarà proprio questo successo a rendere sospettosa la critica ufficiale). Iniziamo col romanzo I santi vanno all'inferno, pubblicato nel 1951 (in italiano verrà tradotto l'anno successivo da Longanesi). Il soggetto era in quei giorni particolarmente dibattuto in Francia e lo è stato successivamente anche da noi, per poi spegnersi a causa della quasi estinzione della questione. Si trattava della scelta di alcuni preti di diventare operai, pur conservando il loro ministero. Si può immaginare la tensione che questa esperienza creò sia nella gerarchia ecclesiastica sia al livello delle comunità cristiane. Cesbron si schierò dalla loro parte combattendo la rigidità e il conformismo di certi ambienti cattolici "scandalizzati". A distanza di tre anni, nel 1954, lo scrittore gettava sul tappeto un altro tema caldo, quello dei ragazzi di strada e della delinquenza minorile.
Apparve, così, il suo romanzo forse più celebre, Cani perduti senza collare (Rizzoli 1955). L'anno successivo, nel 1955, Jean Delannoy trasformò il soggetto in un film interpretato mirabilmente dal grande Jean Gabin. Egli era un giudice del tribunale dei minorenni che si prodigava per redimere i ragazzi sbandati che gli comparivano in aula per processi sommari. Gli esiti naturalmente non sempre erano positivi, ma rappresentavano il modello al quale si sarebbero dovuti attenere i magistrati. Il film sollevò un vespaio di polemiche per il ritratto impietoso – per altro presente anche nel romanzo – della società e delle istituzioni francesi indifferenti, o solo punitive, nei confronti di questo dramma sociale. Il ministro francese André Morice lo volle al Festival del cinema di Venezia, ma il regista François Truffaut attaccò il film come moralistico, melodrammatico e di scarsa qualità. Intanto, però, l'analisi di Cesbron aveva toccato il nervo scoperto di un problema reale che si sarebbe sempre più acutizzato. Tra parentesi ricordiamo che lo scrittore aveva già affrontato lo stesso tema dieci anni prima, nel 1944, col romanzo Les innocents de Paris.
La terza opera a cui rimandiamo è il dramma È mezzanotte, dottor Schweitzer, composto nel 1951 (Rizzoli 2005), che ha come protagonista il celebre teologo, musicologo e filantropo tedesco, premio Nobel per la pace nel 1952, e come tema dominante la carità pura e assoluta. Il personaggio è ritratto proprio nella svolta decisiva della sua vita, nel 1912 quando lascia l'insegnamento universitario a Strasburgo e parte per il Gabon ove fonda il lebbrosario di Lambaréné con l'aiuto di una giovane assistente Marie Winter. La "mezzanotte" è quella di una data del 1914, allorché il dottor Schweitzer è arrestato nella sua missione in Africa semplicemente a causa della sua nazionalità tedesca, essendo scoppiata la Prima guerra mondiale. Il dramma cesbroniano diverrà anch'esso un film nel 1952, diretto da André Haguet, con Pierre Fresnay nel ruolo del protagonista e con Jeanne Moreau a impersonare l'assistente Winter.

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