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Questo articolo è stato pubblicato il 16 giugno 2013 alle ore 08:36.
Oggi il giudice nazionale, "soggetto soltanto alla legge", deve aprirsi una strada in cui il dato normativo positivo interno costituisce uno soltanto, e neanche il più importante, dei filtri attraverso cui leggere le fattispecie oggetto di giudizio. E deve svolgere quella che è brillantemente individuata quale attività di "bricolage giuridico", di découpage, che impone di definire, prima ancora dei contenuti della singola regola di giudizio, il contesto delle fonti rilevanti, il loro differente grado di prescrittività, la possibile conciliazione, o, altrimenti, l'ordine di prevalenza, fino a dissolvere il concetto di interpretazione in un ben più significativo apporto creativo, che lo rende in ultima analisi artefice delle regole, con inevitabile preoccupante torsione del principio di legalità in materia penale sancito dall'articolo 25 della Costituzione.
Sono chiari, e ben evidenziati nel volume che commentiamo, i rischi che simile assetto può provocare, costringendo un interprete educato alla tradizione giuridica continentale a ragionare in termini metodologici casistici propri della cultura di common law, sino a fargli vagheggiare le funzioni "paralegislative" riconosciute appunto al giudice in quei contesti.
Questioni vertiginose che si innervano alle radici dello Stato di diritto e della separazione dei poteri. Questo dovrebbe esprimere un equilibrio di forze dove convergono sia il potere di emanare le leggi che il potere di applicarle ai casi concreti; dove i due poteri (politico-legislativo e giudiziario-interpretativo) stanno tra loro come le linee d'arco che sorreggono l'architettura di una volta, linee che solo se ben distanziate assicurano nel migliore dei modi la tenuta dello Stato di diritto.
Nel contesto attuale, il rischio, invece, è quello di una sovraesposizione del potere giudiziario, tanti e tali sono gli strumenti ermeneutici e le nuove possibilità operative dischiuse dal proliferare delle fonti.
È molto pertinente ed efficace, al proposito, la rappresentazione del "labirinto", che l'autore propone, scandagliandone le diverse insidie: tra queste, la "tentazione di Icaro", ove il giudice si lasci sedurre dalla fascinazione di agganciarsi a una fonte "suprema" – ad una qualche Grundnorm – per evadere dal "labirinto penale", così riducendo il diritto positivo a opinabile e superabile mezzo per il perseguimento di superiori fini.
E qui il pericolo è mettere a repentaglio non la vita del giovane discendente di Ares, bensì il valore della certezza del diritto: si comprende, quindi, l'invito a non affidarsi a fragili "ali di cera", spiccando voli inebrianti ma troppo arditi, ma a entrare nel "labirinto giuridico" con la cautela di Teseo, equipaggiati dell'etica del limite e muniti di un filo che comunque possa ricondurre all'uscita.
Vicepresidente del Consiglio Superiore
della Magistratura
Vittorio Manes, Il giudice nel labirinto. Profili di intersezioni fra diritto penale e fonti sovranazionali, Dike, Roma, pagg. 210, € 25,50