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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2013 alle ore 08:41.

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Il torchio da stampa è l'oggetto che s'impone quando si entra nel loft di Janet Abramowicz. Siamo a New York sulla 15ª strada, a un mezzo isolato dalla Fifth Avenue. L'altezza del soffitto e lo slancio delle finestre fanno spaziare lo sguardo sui tetti, e più lontano su una frastagliata skyline che nella luce di primasera richiama le scheggiature delle sue acqueforti. «Nel 1954, in una mostra a La Spezia, vinsi un premio di 50mila lire. Un mio compagno di scuola, Giorgio Pesci, si incaponì a disegnare e far realizzare questo torchio, in tre esemplari: uno per lui, uno per me, uno per il nostro professore».
Nel loft è appesa una foto di Janet giovane che pulisce il suo torchio: bruna, piccoletta, mobile, frizzante. Il suo professore, che insegnava incisione all'Accademia di belle arti di Bologna, era Giorgio Morandi. «Per gli ultimi due anni di Accademia era obbligatoria una materia a scelta tra incisione e scenografia. Scelsi incisione, ma non per Morandi: all'epoca, malgrado il suo primo premio alla Biennale del '48, nessuno di noi allievi lo conosceva davvero». Janet era venuta in Italia per raggiungere suo marito Artur, nato a Varsavia, che studiava medicina a Bologna dopo aver combattuto agli ordini del generale Anders nel II Corpo polacco dell'VIII Armata britannica. All'Accademia Janet si sarebbe diplomata nel 1952, dopodiché per due anni fu l'assistente di Morandi su richiesta di lui. «Soprattutto il venerdì pomeriggio mi trattenevo dopo lezione. C'era una sola lampadina, enorme, nell'aula. Io fumavo, Morandi pure. Io parlavo pochissimo l'italiano. Parlava lui, molto. E di molte cose. Soprattutto degli allievi stupidi. Era spiritoso. Gli piaceva anche il pettegolezzo. Tra me e lui non c'era bisogno di frasi né di aggettivi».
Ai suoi allievi Morandi insegnava la tecnica. Non faceva discorsi; indicava opere e mostrava come si lavorano i materiali. Parlava di Piero della Francesca e risaliva all'arte di Creta e di Micene. La serie delle Spiral tombs micenee – che fa parte della mostra romana di Abramowicz all'Istituto nazionale per la grafica – è anche un omaggio a Morandi: le lastre metalliche, abrase dapprima in maniera casuale, restano a bruciare per quattro ore in acido nitrico pressoché puro in modo da ottenere regolarità lungo i bordi. «Morandi mi apprezzava proprio perché non facevo i quadri alla Morandi. Fabbricava lui stesso gli strumenti per noi allievi: gli aghi, per esempio. "Coraggio!" ci diceva prima che mettessimo le lastre nell'acido nitrico. Ci faceva fare innanzitutto una lastra di prova, 5-10 secondi prima di toglierla dall'acido, facendo attenzione allo spessore del segno sul metallo. Poi era lui in persona a stampare le prove col torchio. Nel passato, insoddisfatto delle sue stesse acqueforti, gli era capitato spesso di tirarne solo un paio di copie prima di distruggere la lastra, ma poi si pentiva. Ci diceva perciò di far riposare la prima prova di stampa, lasciando passare molto tempo prima di valutare il risultato. Ricordo che avvicinava il più possibile il naso all'acido per controllare il processo chimico su ogni singola linea».
Il maestro e la sua assistente studiavano Rembrandt; Morandi ammirava le sue conchiglie. Ne incise anche lui: per la prima volta nel 1921, poi durante la guerra. «C'è un episodio che si divertiva a raccontare: quando i tedeschi occuparono Grizzana saccheggiarono di tutto, casa per casa, sistematicamente. Andarono anche da lui ma non toccarono i suoi quadri perché non gli piacevano. Soprattutto aborrivano le conchiglie». Morandi, dice Abramowicz, non era affatto l'eremita della leggenda che gli fu costruita intorno. Fu sempre attento alle novità, andava a tutte le Biennali, era in corrispondenza con i critici maggiori (anche quando magari non li leggeva) e con molti suoi colleghi. «In una lettera mi scrisse: "mi sono fatto coraggio, ho richiesto il passaporto". Era il '56. Quell'anno andò tre volte in Svizzera: a Lugano per vedere la collezione Thyssen, a Winterthur per una retrospettiva della sua opera e a Zurigo per Cézanne».
Nel 2004 Abramowicz ha pubblicato su Morandi The Art of Silence, una monografia critica che meriterebbe la traduzione essendo anche un saggio biografico-politico con molte novità. «Fu Morandi che mi portò a Firenze, agli Uffizi, dove mi mostrò Altdorfer, e poi – dopo aver mangiato bistecche dal Troia – in casa di Sandro Contini Bonacossi. Prendemmo il caffè in un salotto che al soffitto aveva un Tiepolo, e dove vidi la natura morta di Zurbarán con le arance, i cedri e la rosa. Per finire mi portò da Roberto Longhi. A un certo momento un suono di tacchi annunciò una signora elegantissima, alta (erano tutti alti per me), molto bella: Anna Banti». E infatti ben cinque tra le nature morte di fiori che, seminate lungo i decenni, sono ora esposte nella retrospettiva che rimarrà aperta tutta l'estate al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, provengono dalla Fondazione Longhi: erano sì destinate al grande critico che aveva fatto culminare nel nome di Morandi – «un nuovo "incamminato"», lo definì – la sua prolusione bolognese del 1934, ma erano dedicate ugualmente alla scrittrice sua moglie.
Come Longhi, Morandi aveva idiosincrasie e consensi imprevedibili. «Considerava l'architettura la più grande tra le arti, quella – diceva – che si arriva a capire per ultima. Quando a Frank Lloyd Wright negarono i permessi per realizzare a Venezia una casa in Volta de Canal, lui fu tra i pochi favorevoli al progetto. Mi disse che avrebbe preferito quella casa ai nuovi alberghi che imitavano lo stile Cinquecento. Gli piaceva Burri, questo si sa. E credo che se negli anni cinquanta fosse stato giovane avrebbe fatto anche lui pittura astratta».

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