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Questo articolo è stato pubblicato il 28 giugno 2013 alle ore 16:30.

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World War ZWorld War Z

Tempi duri per i blockbuster hollywoodiani: dopo i deludenti «After Earth» di M.Night Shyamalan e «L'uomo d'acciaio» di Zack Snyder, usciti nelle scorse settimane, in questo weekend un altro titolo americano ad alto budget non è riuscito a ripagare le attese. Si tratta di «World War Z», ultima pellicola di Marc Forster, prodotta e interpretata da Brad Pitt.

L'attore veste i panni di Gerry Lane, padre di famiglia ed ex agente delle Nazioni Unite, costretto a viaggiare alla ricerca dell'origine di un terribile virus che ha colpito quasi tutta l'umanità: orde di persone infette, in ogni parte del mondo, si avventano sui propri simili contagiandoli in pochi istanti. Proprio nel momento in cui l'epidemia pare inarrestabile, Gerry riesce a trovare un rimedio.
Ispirato al romanzo «World War Z. La guerra mondiale degli zombi» di Max Brooks, il film non è altro che un prodotto piatto e banale, che si appoggia ai più classici cliché del genere horror senza volersi prendere alcun rischio.

Il regista Marc Forster conferma i limiti che hanno contraddistinto la sua carriera: basti pensare al pessimo «Stay» (2005) o all'insipido «Quantum of Solace» (2008), Bond-movie tra i meno apprezzati dai fan di 007.
Nel cast, da segnalare la presenza di Pierfrancesco Favino, sempre più lanciato anche oltreoceano: lo ritroveremo infatti in «Rush», film sulla rivalità automobilistica tra Niki Lauda e James Hunt firmato da Ron Howard.
Se le grandi produzioni a stelle e strisce non convincono, in questo weekend sono diversi i titoli d'autore europei decisamente più impegnati e interessanti. Tra questi il più atteso è «La quinta stagione», pellicola belga diretta da Peter Brosens e Jessica Woodworth.

Al centro della scena, un remoto e piccolo villaggio delle Ardenne colpito da una misteriosa calamità: la primavera si rifiuta di arrivare, gli alberi cominciano a cadere e la terra diventa arida. La natura prende il sopravvento provocando il caos all'interno della comunità.
Presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia, dove ha diviso nettamente la critica, «La quinta stagione» è un film dal grande fascino sonoro e visivo: espliciti i riferimenti alla pittura fiamminga, in particolare a Pieter Bruegel il Vecchio, e al cinema di Andrej Tarkovskij (soprattutto a «Lo specchio» del 1975).

Nonostante la messinscena sia piuttosto ostica (diverse sequenze sembrano uscite da installazioni di video arte), la coppia Brosens-Woodworth riesce a mantenere alta la tensione per tutta la durata della pellicola: a volte con trovate originali e suggestive, altre volte con eccessiva furbizia.
Toni più tradizionali sono quelli di «Doppio gioco» di James Marsch, con Clive Owen e Andrea Riseborough. Ambientato nell'Irlanda del Nord degli anni '90, il film ha per protagonista Colette, giovane donna da diverso tempo attiva nelle lotte dell'IRA, che, rapita dai servizi segreti britannici, viene messa davanti a un'alternativa: andare in carcere per lungo tempo (lasciando così da solo il figlio di dieci anni) o diventare una spia.

Prodotto curioso e anticonvenzionale, «Doppio gioco» sembra in tutto e per tutto un film (volutamente) realizzato negli anni '90, sulla scia di titoli come «Nel nome del padre» (1993) di Jim Sheridan o «Michael Collins» (1996) di Neil Jordan. Il merito va alla fotografia di Rob Hardy e alla grande cura formale del bravo James Marsh, che aveva già dimostrato il suo talento nel documentario «Man on Wire» (premiato con l'Oscar nel 2008).
Niente di nuovo, anche dal punto di vista dei contenuti, ma l'operazione è riuscita ed efficace, come dimostra l'inatteso finale.
Ennesima intollerabile performance del monoespressivo Clive Owen a cui fa da contraltare la sempre più intensa Andrea Riseborough, già vista in «W.E.» di Madonna e nel recente «Oblivion» di Joseph Kosinski.

Infine, da segnalare l'uscita di «Amore carne» di Pippo Delbono, distribuito in sala a due anni di distanza dalla presentazione alla Mostra di Venezia.
Girato con telefonini e mezzi leggeri, è un viaggio documentaristico in cui Delbono incontra attori, amici, conoscenti e rivela dettagli intimi della sua vita passata e presente.
Alcuni momenti toccanti (l'addio a Pina Bausch in primis) non tolgono la sensazione di assistere a una seduta di psicanalisi, eccessivamente privata e autoreferenziale.
Lo sperimentalismo senza limiti è il filo conduttore di un film che, nonostante voglia apparire libero e spontaneo, risulta forzato e studiato a tavolino.

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