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Questo articolo è stato pubblicato il 12 luglio 2013 alle ore 12:41.

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Ben Harper rinasce in blues con l'armonica di Charlie Musselwhite

Chi se lo è perso a Pistoia, vada a vederselo in Svizzera, Olanda, Belgio o Inghilterra, prima che, riposta la chitarra in custodia, se ne torni negli States a deliziare le genti di laggiù. Signore e Signori, Ben Harper è rinato. O, se preferite, si è risvegliato da quel torpore vagamente mainstream che ne aveva caratterizzato l'ultima produzione, fatta di pochi lampi e qualche furbata.

C'entrerà qualcosa il cambio d'etichetta? Se consideriamo il blasone vintage del nuovo punto d'approdo, la leggendaria Stax di Memphis, viene da rispondere affermativamente: «Get Up!» è un disco di blues nudo e crudo che odora della stessa gommalacca su cui a Chicago incidevano i vari Muddy Waters e Willie Dixon. Sin dalla dedica ai mai abbastanza celebrati Salomon Burke e John Lee Hooker. Due padri nobili della musica nera la cui influenza è spesso apparsa riconoscibile nei pezzi del rocker californiano. Ma gran parte del merito della nuova svolta della carriera di Harper va probabilmente ricercata nella collaborazione con l'armonicista 69enne Charlie Musselwhite, l'uomo che ispirò Dan Aykroyd per il personaggio di Elwood Blues: è lui a tenere il ragazzo lontano dalle tentazioni pop e ben saldo nella fede al giro tonica-sottodominante-dominante. Ai suoi occhi che ne hanno viste di tutti i colori Ben deve apparire poco più che un ragazzo. E i ragazzi si sa che vanno guidati.

Riff di chitarra slide e falsetto gracchiante introducono alle atmosfere di «Don't Look Twice», un blues acustico che esalta alla perfezione le acrobazie di Musselwhite all'armonica. Il pulsare ossessivo del basso di Jesse Ingalls fa da spina dorsale a «I'm in, I'm out and I'm gone», brano che non sfigurerebbe nel songbook del grande John Lee. Ammalianti il blues-waltz «We can't end this way» con le robuste armonie vocali di un coro gospel che sbuca da dietro le spalle di Harper per portarci nel magnifico mondo dei predicatori di strada. Blues elettrico arrabbiatissimo è invece «I don't belive a word you say», per il quale un accostamento con i primi Led Zeppelin (o gli ultimi Yardbirds, fate voi) non suona affatto abusato. Ci vuole infatti una certa sapienza a dosare i riff di chitarra elettrica quando ti cimenti con gli stessi giri armonici che portarono Robert Johnson a vendere l'anima al diavolo.

Poi arriva la ballad acustica chitarra-voce-armonica: è «You found another lover (I lost another friend)» e, se dimenticate per un attimo che la melodia della strofa ricalca quella di «Diamonds on the Inside» mentre quella del ritornello si rifà alla «Angel» di hendrixiana memoria, ci scappa pure una lacrimuccia. Pezzo spigoloso, tutto slide e tremolo, è «I ride at dawn», parentesi meditativa che anticipa il boogie elettrico di «Blood Side Out» che potrebbe essere farina del sacco dei Canned Heat, però di semola bella dura. La title track si regge interamente sul giro di basso e, in barba alla struttura di blues, è il brano che più si avvicina al songwriting tradizionale di Ben Harper.

Soul in perfetto stile Stax quello di «She got Kick», canzone che merita la palma di traccia più orecchiabile del disco. Contribuirà in questo senso riff che ricorda da vicino «Dizzi Miss Lizzy»? Può essere. Tutto quello che conta adesso è «All that matters now», lo slow blues che chiude i giochi e manda tutti a nanna. Chitarra, pianoforte, l'armonica di Charlie che contrappunta, la voce di Ben che scandisce parole scolpite nella pietra: «È stato un giorno lungo e duro/ e una notte lunga e dura/ È stato un anno duro/ È stata una vita dura/ ma siamo insieme/ ed è tutto quello che conta adesso». Ben Harper è ancora vivo, ragazzi, e lotta assieme a noi.

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