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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 08:37.

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Vale per la geografia, e per il suo attuale infermo destino scolastico nel nostro Paese, la stessa sorte toccata al continente americano in seguito alla conquista romana del Mediterraneo. E per la stessa ragione. Spiega Lucio Russo nel suo ultimo, fulminante libro (L'America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, Mondadori Università, 2013) che in epoca ellenistica si faceva coincidere le Isole Fortunate, termine occidentale del mondo conosciuto, con le Piccole Antille, mentre due secoli dopo Cristo Tolomeo le sposta in corrispondenza delle Canarie, contraendo in tal modo di molto le dimensioni della sfera terrestre. Con il crollo di Cartagine la conoscenza dell'Atlantico svanisce, argomenta Russo: certo, ma non basta. Quel che a Tolomeo più che ai suoi predecessori, a partire da Eratostene, importava era l' esaustiva, sistematica riduzione del globo (modello che implica un soggetto mobile e perciò la visione processuale della realtà) a una mappa, a una descrizione fondata sull'immobilità del soggetto e sulla simultaneità dell'informazione, resa disponibile a colpo d'occhio. Senza tale radicale mutamento del regime cognitivo sarebbe stato difficilmente concepibile il repentino e arbitrario trasferimento tolemaico del limite del l'ecumene, perché soltanto su di una mappa tutti i nomi sono nomi propri, e la relazione biunivoca tra il nome e la cosa riesce, in assenza di memoria, assolutamente arbitraria e perciò normativa. Ma tra Eratostene e Tolomeo un'altra geografia era stata possibile, e l'averlo dimenticato equivale alla scomparsa del limite americano dalla conoscenza classica occidentale: in ambedue i casi si sconta l'effetto della subordinazione del discorso geografico alla totalitaria logica della rappresentazione cartografica.
Di Eratostene, lo scienziato che tre secoli prima di Cristo aveva calcolato con straordinaria precisione le dimensioni della Terra, oggi non sapremmo quasi più niente se non fosse stato bersaglio delle critiche di Strabone, all'inizio dell'era volgare. E proprio perché di tali critiche si è persa memoria ci si meraviglia (come ancora in queste settimane sui giornali ) per l'assurda espulsione degli insegnamenti geografici, persino dagli istituti tecnici nautici, voluta quattro anni fa dal "riordino" della scuola secondaria promosso dall'allora ministro Gelmini. Eratostene si era comportato non da geografo ma da astronomo secondo Strabone perché, limitandosi a prendere le misure del nostro pianeta aveva trattato la dimora umana come fosse un qualsiasi altro corpo celeste. Al contrario, il problema di Strabone consisteva in un programma che Wittgenstein avrebbe perfettamente compreso: la descrizione di quella parte di Terra per la quale si possedeva il linguaggio perché concretamente percorsa e praticata, agita. Per Eratostene e poi per Tolomeo il mondo era insomma uno spazio: parola che deriva dall'antica misura lineare greca, lo stadio, e implica in ultima analisi la sottomissione dell'intera faccia della Terra a un unico criterio standard di misurazione, dunque già include, attraverso la mediazione cartografica, l'avvento di quel mercato che a Marx appunto apparirà come «il regno dell'equivalenza generale». Per Strabone invece, che pure conosce le distanze e la loro importanza, il mondo restava, come già per Aristotele, un insieme di luoghi, di parti l'un l'altra irriducibili perché ciascuna dotata di valori propri e qualità specifiche. E la geografia serviva proprio a trasformare la mappa in un discorso, in una versione alternativa, e perciò potenzialmente critica, rispetto a quella spaziale, e perciò apodittica, della realtà. Perciò non a caso nella Germania "tra riforme e rivoluzione" del primo Ottocento sarà proprio Strabone il geografo di riferimento dell'Erdkunde, del sapere geografico funzionale all'avvento al potere dell'elemento borghese, della società civile: sapere che, contrapposto alla Geographie di marca aristocratico-feudale, per Alexander von Humboldt era appunto la «teoria critica della Terra» e riconosceva nella «filosofia, la storia, il linguaggio» le sue armi, contro quella che Carl Ritter chiamava «la dittatura cartografica», il pensiero unico spaziale dei funzionari della «corte della vecchia verità».
L'intera modernità sarà però costruita, alla fine, sulla trasformazione della Terra in un'unica, gigantesca mappa, e per sincerarsene basta far mente alle tre caratteristiche di cui ogni territorio statale deve essere costitutivamente dotato: deve risultare tutto di un pezzo, tutto della stessa sostanza (di cittadini che condividano la stessa cultura), deve comporsi di parti orientate nella medesima direzione (di qui l'esistenza di una capitale, tendenzialmente al centro, il punto verso il quale tutto lo stato è funzionalmente voltato). Come dire che il territorio statale dev'essere geometrico, perché le tre proprietà appena richiamate, la continuità l'omogeneità e l'isotropismo, sono appunto quelle che per Euclide definiscono la natura geometrica del l'estensione. Dunque il mondo davvero diventa, in epoca moderna, un'immane mappa, un gigantesco spazio, suddiviso in meno di duecento formazioni spaziali, cioè statali. Ed è questo il motivo per cui l'idea che abbiamo del sapere geografico compiuto coincide con l'immagine cartografica. Se fosse soltanto così gli estensori della legge Gelmini avrebbero ragione anche nel caso della geografia: perché studiarla se per fare il punto nave basta adesso affidarsi alla navigazione satellitare? Il problema è che affidarsi a quest'ultima, e più in generale all'intreccio tra telematica, cibernetica e informatizzazione da cui sempre più dipende oggi il funzionamento del mondo, comporta appunto il riconoscimento della crisi irrimediabile della riduzione spaziale, e perciò cartografica, della realtà: quello al cui interno la distanza fisica lineare risulta la relazione decisiva.

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