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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2013 alle ore 09:06.

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Censura, cent'anni di tagli italiani

Sono trascorsi esattamente cent'anni dal l'approvazione, nel 1913, della prima legge sulla censura cinematografica. Un parlamento distratto da ben altre questioni – si era nei mesi successivi alla fine della guerra di Libia e alla vigilia delle prime elezioni a suffragio universale – varava il 25 giugno a larghissima maggioranza un breve testo normativo voluto dal presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti e presentato dal ministro delle Finanze, Luigi Facta, che fissava una tassa su ogni metro di pellicola girato, al fine di contribuire alle spese necessarie a "esercitare la vigilanza" sulle proiezioni attraverso un'apposita Commissione composta di funzionari del ministero degli Interni. I controlli previsti dovevano, infatti, riguardare un'esigenza di tutela dell'ordine pubblico e sociale esistente, evitando le "pericolose" turbative provocate dal fluire sugli schermi di immagini richiamanti comportamenti anomali o trasgressivi per quanto si riferiva al "buon costume", alla reputazione nazionale, all'esercizio della violenza, al rispetto delle istituzioni e della religione e a tutto quanto, in definitiva, potesse favorire deviazioni individuali e collettive nei confronti della legge e, più generalmente, della morale dominante. Mentre il cinema stava definendo i suoi standard stilistici e produttivi immediata era l'attenzione sospettosa delle autorità politiche verso un mezzo di comunicazione ritenuto così direttamente coinvolgente, e finanche soggiogante, la sensibilità degli spettatori, destinati, si temeva, a essere trascinati in un vortice incontrollato di emozioni, di suggestioni, di "pericolose" tentazioni imitative.

Bloccare un simile rischio diveniva, dunque, compito prioritario di uno Stato da sempre impegnato a "formare" i suoi cittadini, a fornire loro le ragioni e i modi della loro ordinata convivenza. Per altro, questa attitudine educativa era confermata dalla censura positivamente esercitata sugli errori di ortografia e grammaticali, spesso grossolani, presenti nelle didascalie che accompagnavano i fotogrammi dei film muti. Gli anni successivi assistevano a un susseguirsi di precisazioni normative e regolamentari che definivano forme di controllo destinate a restare sostanzialmente inalterate, a partire dal l'esame preventivo della sceneggiatura del film e dalla composizione delle Commissioni delegate alla revisione, arricchite dalla presenza di educatori, magistrati, critici artistici, giornalisti e "madri di famiglia". Solo la legge del 1962 sembrò spostare l'ottica della "revisione" dalla difesa dell'ordine pubblico, individuato attraverso una casistica sempre più nutrita, alla salvaguardia dei diritti individuali (in particolare dei minori) solamente sul tema costituzionale del "buon costume", senza però discostarsi troppo, nella pratica operativa, dalle modalità precedenti, anche se le Commissioni di vigilanza si allargavano a componenti delle categorie cinematografiche.

Immergersi nel flusso incessante di valutazioni, suggerimenti più o meno vincolanti dati agli autori, proibizioni, controlli preventivi e a posteriori , significa, da un lato, essere condotti ben dentro il trasformarsi delle motivazioni culturali, economiche, tecniche, organizzative, ispiratrici delle scelte effettuate via via dai protagonisti delle diverse fasi della vicenda cinematografica; e, dall'altro, seguire il mutarsi del costume sociale, delle relazioni interpersonali, del rapporto cittadino-Stato e di quant'altro esprima la capacità rappresentativa di una cinematografia espressione, nel bene e nel male, dei propri tempi. Da qui l'importanza straordinaria del lavoro compiuto dalla Cineteca di Bologna, per conto della Direzione Generale per il Cinema del ministero per i Beni e le attività culturali, di realizzazione di una banca dati (sarà completata a fine anno con la messa online di oltre 90mila visti di censura) dell'intera documentazione archivistica riguardante i fascicoli singoli di tutte le opere sottoposte al vaglio delle Commissioni di revisione cinematografica per ottenere il nulla osta alla proiezione pubblica. Un progetto denominato «Italia taglia», elaborato da Pier Luigi Raffaelli e coordinato ai vari livelli da Gian Luca Farinelli, Tatti Sanguineti e Anna Fiaccarini, e che potrà contribuire in modo decisivo a una migliore comprensione, tanto delle strade intraprese nel tempo dalla nostra filmografia, quanto del suo ruolo di specchio – ma a volte anche di "motore" – dei cambiamenti sociali.

Ecco, allora, che, scandagliando qua e là l'immensa mole di materiale, oltre i casi più noti e sempre citati (basta pensare a Pasolini, a Rocco e i suoi fratelli, all'Ultimo tango Parigi di Bertolucci) ci imbattiamo – eravamo all'epoca del muto, nel 1927 – in raccomandazioni riguardanti il capolavoro di Fritz Lang, Metropolis, ove si consigliava di accennare appena alla sequenza degli operai che vanno al lavoro a passo lento e si sopprimevano le didascalie che incitano i lavoratori con un linguaggio richiamante lo spirito evangelico. Furono, invece, le scene macabre e quelle della violenza popolare della Rivoluzione francese, descritte dal Madame du Barry di Lubitsch (1919), a venire eliminate. Tre anni dopo, sull'altro "pericoloso" piano dell'erotismo, erano stigmatizzati i rapporti amorosi lesivi della corretta armonia familiare, al centro della trama di Fatale bellezza, con protagonista la "divina" Francesca Bertini. Ancora nel 1927, era approvato con riserva Vita da cani di Chaplin, con l'obbligo di togliere le scene in cui il tenente tedesco veniva malmenato dai soldati e tutte quelle raffiguranti il Kaiser e il maresciallo Hindenburg. Interessante, pure, nel Dopoguerra, il caso di Il sole sorge ancora (1946), realizzato sotto gli auspici dell'Anpi e ritenuto in prima istanza meritevole di partecipare alla Mostra di Venezia, ma non proiettabile in pubblico, in quanto – scriveva il funzionario – appariva eccessivo il verismo di certi eventi descritti, mentre troppe erano le allusioni a pervertimenti sessuali e le battute lesive dell'onore dell'esercito italiano. Inoltre, proseguiva l'appunto, si rilevava «il carattere polemico del film che, per esaltare l'apporto popolare alla guerra di insurrezione contro i tedeschi, ha coperto di tare morali l'unica famiglia borghese rappresentata nella pellicola, esasperando l'impostazione classista di tutta la pellicola». La produzione si premurava di effettuare tagli tali da permettere, in sede di revisione, di consentire la circolazione del film nelle sale pubbliche.

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