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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2013 alle ore 08:45.

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Ecco una mostra da non lasciarsi sfuggire. Si intitola «Diafane Passioni», è dedicata alla produzione di avori intagliati per le corti barocche ed è spettacolarmente allestita al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti a Firenze, a cura di Eike D. Schmidt e Maria Sframeli, con Mauro Linari quale architetto allestitore e il sostegno dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze.
L'evento è da non perdere per quattro ragioni: la bellezza e la bizzarria degli oggetti esposti, l'estrema qualità scientifica della ricerca, le figure di artefici pressoché ignoti che riporta in luce e, non ultima, la teatrale magnificenza dell'allestimento. Ma, prima di immergerci in questa strepitosa Wünderkammer eburnea, è doveroso innalzare un pensiero commosso ai poveri elefanti che furono per secoli – loro malgrado – i fornitori della materia prima. Anche se impropriamente si definisce "avorio" il materiale ricavato dai denti di ippopotamo, cinghiale, capodoglio, narvalo e tricheco, o dal corno del rinoceronte, furono solo gli elefanti con le loro zanne (cave all'interno) i titolari del vero avorio. E per fornirlo subirono cacce indiscriminate nei loro habitat naturali (Africa e Asia) e, talvolta, penose cattività in Europa.
Due furono le epoche artistiche che segnarono in Europa la grande fioritura della scultura in avorio: il Gotico e il Barocco. Precedentemente c'era stata, in età paleocristiana e bizantina, una notevole produzione soprattutto di dittici in avorio. Nel Quattrocento la bottega italiana degli Embriachi aveva sfornato polittici e cassette intagliate, utilizzando però non l'avorio bensì l'osso. Si può dunque affermare che l'età rinascimentale lasciò un po' in panchina l'avorio, a eccezione di qualche mente curiosa. In un appunto del Codice Atlantico, ad esempio, Leonardo da Vinci parla di un «tornio ovale» e probabilmente allude al macchinario che serviva per la lavorazione dell'avorio. I Medici di Firenze possedevano a metà del Cinquecento cucchiai e corni da caccia in avorio (chiamati «olifanti»), provenienti delle colonie portoghesi in Africa; analogamente, pregiati manufatti d'avorio si potevano ritrovare nelle collezioni di Francesco I di Francia, dell'arciduca del Tirolo, dei duchi di Monaco e dell'imperatore Rodolfo II a Praga. Persino quel geniaccio di Albrecht Dürer possedeva personalmente qualche manufatto in avorio. Il consolidamento delle colonie portoghesi in Africa e India durante il Cinquecento arrivò a garantire un flusso regolare e consistente di zanne grezze verso l'Europa. Di conseguenza, la lavorazione dell'avorio riprese quota verso la metà del secolo XVI partendo – cosa ancor'oggi poco nota – proprio dal nostro Paese, l'Italia.
Benvenuto Cellini descrisse il padre Giovanni come un virtuoso del tornio e si vantò che fosse «il primo che lavorasse bene d'avorio». Ma il primo vero grande protagonista di quest'arte fu un milanese che si chiamava Giovanni Ambrogio Maggiore. Stiamo parlando di un Carneade quasi totale, che persino moltissimi storici dell'arte di professione ignorano (figurarsi il grande pubblico), e che va di pari passo – in quanto a nebbia conoscitiva – coi nomi d'altri artefici italiani che si distinsero in questa produzione e il cui semplice appello (Francesco Terilli, Domenico Bissoni, Giovanni Battista Bissoni, Antonio Leoni, Stefano Costa, Filippo Planzoni eccetera) lascia l'elettroencefalogramma del comune mortale sostanzialmente piatto.
Eppure, fu proprio Giovanni Ambrogio Maggiore che, abbandonata Milano a fine Cinquecento, venne chiamato in Baviera alla corte di Giovanni V e qui gettò il seme della candida arte destinata a trovare in terra tedesca e in età barocca il luogo e il momento di maggiore gloria. Dalla Germania la moda della scultura in avorio dilagò in tutta Europa fino al Settecento, in particolare nelle città di corte, e non è un caso che i principali agglomerati di questi diafani tesori si trovino ancora conservati in antiche capitali dinastiche come Firenze, Dresda, Vienna, Monaco e San Pietroburgo.
La mostra del Museo degli Argenti racconta l'incredibile fortuna della scultura in avorio nel suo periodo aureo, e lo fa attraverso singolari tipologie di manufatti, geniali artefici, famelici collezionisti.
A lasciare stupefatti i visitatori sono innanzitutto le tipologie dei manufatti. Gli «olifanti» da caccia che sfruttano a pieno la forma del «dente d'elefante», assieme ai dittici paleocristiani e i bassorilievi gotici, sono i pezzi che raccontano i precedenti di quest'avventura creativa. La mostra è particolarmente ricca di statue (alcune di spettacolare virtuosismo come il Marco Curzio che si getta nella voragine del 1626), di crocefissi, di bassorilievi e di oggetti d'uso, come caraffe, boccali, piatti da parata e cornici. Ma lo stupore raggiunge il suo apogeo dinnanzi ai cosiddetti «avori torniti». Si tratta di globi, poliedri e di vasi dalle forme arditamente allungate e instabili, nei quali l'estrema abilità nel maneggiare il tornio, la consistenza e la facilità d'intaglio dell'avorio e la sfrenata fantasia degli artisti, si sono concretizzati in manufatti d'impressionante bizzarria. Oggetti fatti solo ed esclusivamente per stupire, e definiti «strutture eburnee a rischio» o «geometrie della paura» in virtù dell'incredibile ardimento della lavorazione che sembra voler sfidare apertamente la consistenza della materia e le leggi della statica.
Per quanto riguarda gli artefici di queste meraviglie, i nomi che contano ci sono tutti; e se fossimo meno digiuni in materia gioiremmo nel vedere associati i pezzi più spettacolari alle mani di autentici virtuosi dell'avorio, quali furono Johann Eisenberg, Filippo Sengher, Leonard Kern, Georg Petel, Francis von Bossuit e Balthasar Permoser.

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