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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2013 alle ore 08:41.

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Graziella Salvi compiva 19 anni il 27 luglio 1983, quel giorno fu rinchiusa nella prigione femminile di Hindelbank, nel cantone di Berna. Senza processo, senza neppure sapere quando sarebbe potuta uscire. A differenza dei criminali, non conosceva la durata della sua pena. Impossibile processarla perché non aveva commesso alcun delitto. Sbatterla in galera era definita una «misura coercitiva a scopo assistenziale»: aveva tentato più volte la fuga dall'ospedale psichiatrico dove i servizi sociali l'avevano piazzata per... proteggerla da genitori violenti. I medici avevano dato parere negativo, ma qualcuno decise che era più al sicuro dietro le sbarre: chissà, forse fuori avrebbe potuto incontrare qualche delinquente. Una volta rilasciata dovette pagare il conto del soggiorno: 7.500 franchi svizzeri.
La sua storia è quella di centinaia di migliaia di innocenti, bambini e bambine, uomini e donne imprigionati, costretti ai lavori forzati, sterilizzati d'ufficio, privati dei figli o dei genitori, obbligati ad abortire solo perché non erano sposati, perché erano poveri, perché si comportavano in modo strano, perché erano figli di nomadi, o ribelli, o sognatori, o alcolisti, o perché un vicino aveva scorto una copia di «Playboy» nel salotto di una giovane mamma. Le autorità li chiamano «internati amministrativi». A decidere della loro sorte non un tribunale, ma un giudice di pace, o un "notabile" del luogo: il sindaco, il notaio, il prete, un istitutore, un commerciante, un uomo di buona volontà. Nel Paese che ospita il Consiglio per i diritti umani dell'Onu gli abusi durarono almeno fino ai primi anni 80.
È un brutto risveglio, greve, maleodorante e colpevole come dopo una sbornia quello cui la Svizzera sta assistendo. Per anni la gente si è rifiutata di dare credito alle voci di denuncia che cercavano di forzare il silenzio. Ora non è più possibile far finta di niente, è un fiume in piena. Centocinquanta libri sono stati scritti dai sopravvissuti, il regista Markus Imboden ha preso ispirazione per il film svizzero di maggiore successo degli ultimi anni, Der Verdingbub, una mostra itinerante (Enfances volées - Verdingkinder reden, www.enfances-volees.ch) ha poi percorso ogni angolo della confederazione per concludersi a Ginevra pochi giorni fa. Più di centomila persone l'hanno vista. E sono settimane che i media locali e stranieri riportano testimonianze strazianti. Uomini di settant'anni come Jean-Louis Claude e suo fratello, dopo una vita passata a cercare di nascondere e dimenticare, sono scoppiati in lacrime raccontando come, poco più che neonati, per ragioni a loro sconosciute furono tolti ai genitori, messi in orfanatrofio e poi a quattro anni mandati a lavorare in una famiglia di contadini dove dormivano nella stalla piena di topi e venivano legati nudi alle macchine agricole perché non scappassero. Qualcuno ebbe pietà di loro e così li inviarono in un istituto dove furono stuprati da una decina di persone, fra cui numerosi preti e il direttore.
Sono state trascritte le storie di tante donne costrette ad abortire e poi sterilizzate senza nemmeno informarle, perché nubili o considerate "ritardate". Come Bernadette Gächter, un'orfanella forse un po' scontrosa coi genitori adottivi, ma sanissima, che qualcuno da bambina dichiarò affetta da «mancanza congenita di attaccamento». O come Ursula Biondi (www.umueller.ch) che mostra le foto del viso dolce e bellissimo dei suoi 17 anni. Era il 1967. Ascoltava radio Luxembourg e respirava l'aria di libertà che soffiava in tutta Europa. Fuggì con il suo innamorato, sette anni più grande di lei, divorziato. Fu arrestata alla frontiera. I servizi sociali consigliarono a sua madre di mandarla in una «casa di rieducazione», che non era altro che la prigione femminile. La misero ai lavori forzati anche durante la gestazione, gomito a gomito con assassine e detenute che si mutilavano e cercavano di uccidersi. Tracce di sangue e urina dappertutto. Quando nacque era già stabilito che suo figlio fosse dato in adozione. Sussurrarono al neonato «di' addio a tua madre». Poi le fasciarono il seno per impedire la montata lattea. Fu solo tre mesi più tardi, dopo aver tentato il suicidio, che le fu concesso di rivederlo.
Ursula fu una delle prime a denunciare gli abusi che subì, dopo trent'anni passati a cercare di dimenticarli, in un libro pubblicato nel 2002, Geboren in Zurich (nata a Zurigo), che non ebbe alcuna risonanza. Creò poi un'associazione di vittime, cominciò a essere intervistata. E piano piano molti altri trovarono il coraggio di testimoniare, rivelando così anche le scandalose dimensioni del fenomeno. «Noi vittime siamo a lungo rimaste in silenzio, perché una vergogna mal compresa e un senso di colpa interiorizzato ci hanno impedito di parlare. Io stesso sono riuscito a dirlo solo al momento del pensionamento, dopo la mia festa d'addio: sono un bambino cresciuto in istituto. Figlio illegittimo, fui strappato a mia madre quand'ero ancora in fasce. Questo su ordine delle autorità, sostenute dalla chiesa. Nonostante le centinaia di occasioni che avrei avuto di raccontare della mia vita in istituto, le esperienze vissute durante l'infanzia e l'adolescenza sono state così prostranti che le ho tenute nascoste durante buona parte della mia vita, schiacciato dal peso della vergogna. Mi era impossibile parlarne» ha dichiarato Sergio Devecchi, citando poi una frase di Salman Rushdie: «Chi non può raccontare la sua vita non esiste».

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