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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2013 alle ore 08:38.

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Nel mondo sono rimaste poche agenzie fotografiche che riescono ancora a cavalcare le onde di un media system sempre più turbolento, e tra queste vi è sicuramente Getty Images, che è leader insieme a Corbis del settore della stock photography, ma anche molto attiva nel l'ambito del fotogiornalismo.
Fondata nel 1993 da Mark Getty, nipote del Paul Getty III rapito a Roma nel 1973, la giovane agenzia deve le sue fortune allo sviluppo della rete internet, che ha favorito l'affermarsi degli archivi digitali, ma soprattutto all'avvento del web 2.0, che ha messo in ginocchio i micro e mid stock favorendo i più grandi. In questo modo Getty ha potuto acquisire un gran numero di archivi tradizionali e digitali, ma anche avviare proficue sinergie con social network fotografici come Flickr, costituendo di fatto una delle più grandi banche d'immagini dell'era digitale. E quanto sia strategico il settore e promettente il modello creato dalla Getty lo attesta la sue recente acquisizione (2012) da parte del gigante americano del private equity, Carlyle Group, per 3,4 miliardi di dollari.
Il modello Getty si caratterizza per la sua capacità di tenere insieme stock photography e photoreportage di qualità, settore nel quale ha conseguito grande prestigio attraverso le attività dell'agenzia «Reportage by Getty» e i Grants for Editorial Photography, che dal 2005 vengono assegnati nell'ambito del «Visa pour l'image», il festival internazionale del fotogiornalismo di Perpignan di cui Getty è partner e sponsor.
La vitalità di Getty è quindi specchio dei tempi. Il web, lo sappiamo, moltiplica i produttori e rende complicata ogni economia fondata sulla proprietà intellettuale di opere dell'ingegno, favorendo chi è in grado di gestire grandi distribuzioni in rete e abbattere i prezzi. Tuttavia, la formazione dei grandi monopoli delle reti, capaci di reggere la concorrenza della produzione sociale e della libera condivisione, o persino di sfruttarla, implica svariati problemi, tra cui il problema di produrre continua innovazione (qualità) e quello di contrastare la libera condivisione metro per metro. Getty cerca perciò di tenere insieme quantità e qualità (stock e reportage), e di contrastare la circolazione pirata delle immagini arrivando persino a inviare un conto di 6mila sterline per un paio di immagini «Getty» che una diocesi inglese aveva utilizzato sul proprio sito scaricandole dalla rete.
In relazione alla fotografia questo paradosso è molto chiaro. Come Getty commerciale (quantità) giganteggia sulle rovine degli archivi piccoli e medi, così la Getty Reportage (qualità) s'innalza tra le macerie fumanti delle altre agenzie e dell'editoria piccola e media.
Il web minaccia insieme carta stampata e fotogiornalismo, la prima per il sopravanzare della rete e dei suoi sistemi di produzione-circolazione, il secondo per essere molto legato al supporto cartaceo, ma anche per essere a sua volta minacciato dalla marea montante del citizen journalisme. Getty dimostra che controllando il sistema di produzione-circolazione della quantità su web si riesce anche a tenere in qualche modo le mani sui rubinetti della qualità, almeno della sua circolazione se non della sua produzione.
Il timore diffuso è che la qualità alla lunga soccomba, ma il web annovera tra i tanti suoi paradossi anche quello di minacciare e al tempo stesso alimentare la qualità. Personal media e social network producono un'infinita e caotica nuvola comunicativa dominata dalle immagini, che non si riesce a capire se potrà mai evolvere in un sistema capace di produrre senso. Questa nuvola ha investito la produzione dell'informazione abbattendo il valore di mercato dei suoi prodotti e mettendo in primo piano la documentazione pervasiva e frammentata che monta dal basso. La data periodizzante, come afferma lo stesso Christian Caujolle, critico visivo e fondatore dell'agenzia francese VU, è il 2004, con le immagini totalizzanti di Abu Ghraib e dello tsunami asiatico. Le ultime dimostrazioni del protagonismo dei cittadini giornalisti sono i fiumi d'immagini della primavera araba e le scioccanti immagini delle stragi siriane al Sarin.
La marea informativa anonima del web è per molti, nella sua tautologica riproduzione della realtà, verità che si palesa e quindi utile strumento di controllo dal basso e di democrazia, per altri la volatilità del supporto, l'anonimato, l'assenza di criteri selettivi e di contestualizzazione rimanda al costante rischio di strumentalizzazione e manipolazione, e comunque al prevalere, come effetto delle informazioni circolanti, delle reazioni emotive su quelle razionali e analitiche.
Ma il paradosso del web è che, nonostante questo stato di cose teoricamente esiziale, tra crisi dell'editoria cartacea e montare incontrastato del citizen journalism – che ha il proprio naturale ecosistema nell'internet – il fotogiornalismo professionale prospera. Com'è mai possibile, visto che quest'ultimo non trova particolari sbocchi né economici né editoriali sul web?
È quello che si deduce dagli stessi risultati dei Grants for Editorial Photography, che vedono confermata una vitalità e una qualità, sia per quanto riguarda la scelta dei contenuti che per quanto riguarda quella degli autori. Nei contenuti domina la guerra, com'è naturale per il momento storico e per la vocazione di Getty, ma con un fotogiornalismo di guerra intelligente, che tiene insieme il centro e la periferia, e in particolare gli Usa con il lavoro del grande e notissimo americano Eugene Richards, che con War is personal Part II continua a raccontarci le conseguenze dell'Iraq sulla pelle dei reduci americani o delle famiglie di reduci e vittime, ma anche con l'ammirevole attività del giovane e finora sconosciuto italiano Marco Gualazzini, che con M23 - Kivu: A Region Under Siege cerca di portare alla luce il conflitto centroafricano; che non c'è citizen journalism che riesca a imporre all'attenzione mediatica, nonostante i più di 6 milioni di morti in 15 anni. Proprio in relazione a Gualazzini si può prendere spunto per considerare come il paradosso generale (crisi dell'editoria contro vitalità del fotogiornalismo) nel contesto italiano è ulteriormente accentuato, a causa del fatto che la crisi dell'editoria in Italia è più profonda, per ragioni culturali storiche ma anche economiche contingenti, e anche perché la crisi colpisce maggiormente i settimanali, che sono quelli che maggiormente supportano il fotogiornalismo. Oggi nessun giornale produce più photoreportage, ed è tanto più grave quanto più si consideri che i fotografi sono gli ultimi giornalisti rimasti a girare per le strade, visto che i giornalisti free lance sono morti di fame da tempo e le redazioni sono decimate.

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