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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2013 alle ore 08:42.

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Lo spirito imprenditoriale e il progresso tecnologico dell'Occidente risalgono a secoli fa e hanno cambiato il mondo per il meglio. Questo, almeno, è un modo di vedere la storia, ma non tutti sarebbero d'accordo. Non mancano studiosi, insofferenti al trionfalismo occidentale o preoccupati di non offendere l'orgoglio e la perizia degli asiatici (dei cinesi in particolare), che considerano la Rivoluzione industriale un fenomeno tardivo nella storia dell'imprenditorialità e lo trattano come un caso fortunato (o sfortunato, a seconda del proprio sistema di valori). Avrebbe potuto capitare ovunque, dicono: è toccata in sorte al l'Europa o alla Gran Bretagna grazie soprattutto a fortuite vicende politiche, con in più il vantaggio delle colonie di oltremare. E la globalizzazione, nel senso della diffusione a livello mondiale dei commerci, dell'industria e della tecnologia, è arrivata ancora più tardi, dopo la seconda guerra mondiale.
Nuove ricerche e riflessioni sulla storia mondiale comparata, tuttavia, mostrano chiaramente che i commerci globali risalgono a più di un millennio fa, ai tempi dello sviluppo economico dell'Asia e poi dell'Europa, nel tardo Medioevo, ai tempi dell'apertura del mondo, con la circumnavigazione dell'Africa e la penetrazione dei vascelli europei nelle acque asiatiche e la contemporanea invasione delle Americhe da parte del vecchio Continente. I secoli che seguirono videro l'Occidente diventare più ricco delle altre regioni del mondo, distanziare le aree che un tempo erano all'avanguardia, fondare imperi in terre lontane, e tutto grazie alla sua superiorità scientifica, tecnica e imprenditoriale. Buona parte della storia successiva è stata profondamente influenzata da questo divario e dalla reazione delle aree arretrate, che guardavano con risentimento al predominio paternalistico, condiscendente, caritatevole e non caritatevole, benefico e predatorio dell'Occidente.
Davano la colpa di questo divario tra ricchi e poveri ai ricchi, addebitavano le proprie debolezze e carenze a qualcun altro. In particolare, ritenevano che le nazioni industriali avessero usato il loro potere non per aiutare i deboli, ma per sfruttarli e saccheggiarli. In questo scenario, successo e impero sono forze malefiche.
Ciononostante, i vantaggi ottenuti dai primi Paesi che si industrializzarono stimolarono altre Nazioni, più lente, a imitarli ed emularli. C'era da guadagnare soldi ad adottare questi nuovi metodi. Volere, però, non voleva dire necessariamente riuscire. Per emulare serviva conoscenza, serviva la capacità di organizzare e razionalizzare la produzione, serviva uno spirito imprenditoriale intelligente e dinamico, servivano leggi che proteggessero la proprietà privata, serviva cambiamento. I Paesi meglio attrezzati per questo compito erano dislocati in certe zone dell'Occidente, come l'Irlanda, la Scandinavia, alcune aree dell'Europa centrale e orientale, il Canada, segmenti ristretti dell'America Latina: tutti posti che in precedenza non avevano potuto adottare i nuovi metodi per malasorte politica e impedimenti culturali.
In generale, i Paesi e le regioni che se la sono cavata meglio sono proprio quelli che hanno sfruttato le opportunità offerte da commerci dinamici e libertà imprenditoriale, spesso nonostante i vincoli opposti dalle autorità. Sono questi i Paesi che hanno attirato il maggior numero di progressi e investimenti dall'estero. Ma non ci sono riusciti seguendo le formule proposte o imposte da esperti del mondo più ricco. L'essenza del successo imprenditoriale risiede nell'immaginazione creativa e nell'iniziativa.
I poli più antichi dell'Asia vicina e lontana – il mondo islamico, l'India, la Cina – non disponevano delle basi culturali e istituzionali su cui poggia lo spirito imprenditoriale. Peggio ancora: tendevano a restare attaccati alla tradizione in un mondo che li metteva di fronte a sfide disagevoli e poco piacevoli. La Cina e il Medio Oriente arabo offrono esempi pregnanti di questa resistenza all'innovazione, con conseguente sentimento di rivalsa nazionale contro coloro che incolpavano delle disparità economiche derivanti da tale resistenza. Sia la Cina che il mondo arabo si immiserirono crogiolandosi nella loro superiorità culturale, morale e tecnica sui barbari che li circondavano, rifiutando di imparare da popoli che disprezzavano come inferiori, rifiutando semplicemente di imparare. L'orgoglio è un veleno: come dice il proverbio, la superbia andò a cavallo e tornò a piedi. (...)
Oggi viviamo in un periodo di globalizzazione dell'attività economica particolarmente sostenuta. Questa è una cosa buona, specialmente per quelle Nazioni povere che fanno affidamento su queste importazioni di attività per colmare il divario con i Paesi ricchi. È così che chi è indietro può imparare, è così che i poveri possono sfuggire alla miseria. Ma se in generale gli effetti (alla fine) sono positivi, allora perché c'è resistenza e risentimento? Perché la rabbia, i disordini? Perché questa alluvione di critiche?
Una ragione è la delusione per i risultati. "La povertà", scrive Dani Rodrik in un saggio illuminante e brillante, «è la questione dirimente». I Paesi più poveri hanno sofferto, nonostante gli strenui sforzi di economisti e istituzioni governative dei Paesi ricchi dell'Occidente (Fmi e Banca mondiale, quindi) per convincerli a fare quelle cose che si ritiene favoriscano lo sviluppo. Quasi tutta l'Africa sta affondando in una palude di insuccesso, corruzione e problemi sanitari. I Paesi dell'America Latina hanno registrato un'alternanza di prosperità e insuccessi, e hanno visto i tassi di crescita scendere al di sotto della media storica. Una serie di ex Paesi socialisti e comunisti, che ci si sarebbe aspettati di veder prosperare con la ritrovata libertà, hanno chiuso il XX secolo con un calo del reddito pro capite. Anche il cosiddetto miracolo economico dell'Asia meridionale e sudorientale ha conosciuto delle battute d'arresto.

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