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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2013 alle ore 08:39.

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«Ci sono cose che si vorrebbe aver dimenticato o non aver mai saputo. Una di queste è l'8 settembre 1943, col suo codazzo di umiliazioni, di sciagure, di irreparabili danni materiali e morali». Così scriveva nel 1983 il grande storico Rosario Romeo, il quale aveva diciannove anni quando fu annunciata la resa dell'Italia. Il codazzo degli eventi che seguirono furono: la fuga da Roma del re e del capo del governo, con il principe ereditario, ministri e generali, per rifugiarsi nel Sud occupato dagli Alleati; la mancata difesa della capitale, subito occupata brutalmente dai tedeschi, reprimendo la resistenza spontanea di alcuni militari appoggiati da civili; la disgregazione dell'esercito italiano abbandonato a se stesso; il disfacimento dello Stato, mentre la penisola diventava un campo di battaglia fra eserciti stranieri che si combattevano strenuamente; l'esplosione della guerra civile in seguito alla ricostituzione di un regime fascista repubblicano sotto egida nazista, che controllava l'Italia dalle Alpi alla Campania, mentre in Puglia sopravviveva il regno di Vittorio Emanuele III. Infine, somma e risultato di tutti questi eventi, ci fu lo sfasciume civile e morale di una nazione che, in meno di un secolo, si era unita in Stato indipendente ed era assurta al rango di grande potenza dopo la vittoria nella Grande Guerra, e in pochi giorni, dopo l'8 settembre, precipitò nelle condizioni miserabili e disperate di una popolazione che stentava a sopravvivere, come all'epoca delle invasioni barbariche.
L'immane tragedia che si abbatté sugli italiani dopo l'8 settembre è stata diversamente interpretata da testimonianze, memorie e studi storici, ai quali altri se ne sono aggiunti nella ricorrenza dei settanta anni. Non sembra tuttavia che ci siano nuove rivelazioni, nuovi documenti o nuove interpretazioni. Per esempio, Otto settembre di Paolo Sorcinelli (Bruno Mondadori, 2013) è la «storia narrata» di alcune esperienze individuali vissute negli anni fra il 1942 e l'inizio della guerra civile. Un racconto delle vicende connesse all'8 settembre, senza novità di ricerca e originalità di interpretazione, è L'Italia del silenzio di Gianni Oliva (Mondadori 2013), con l'aggiunta di un compendio, pur lacunoso, che riassume la diatriba fra "vulgate" e "antivulgate" sul significato dell'8 settembre nella storia dell'Italia contemporanea. Animata negli anni Novanta da una storiografia pubblicistica più incline alla provocazione che all'analisi storica, la diatriba fu una contesa fra formule che attribuivano funzione di categorie storiche a metafore emotive o miti ideologici: «riscatto della nazione», «resistenza di popolo», «zona grigia», «morte della patria», «fine dell'Italia». L'8 settembre fu così trasformato in simbolo del bene o del male della nazione, diventando una sorta di giudizio universale sugli italiani.
Ma la realtà dei fatti era diversa dalle metafore. La maggioranza degli italiani, l'8 settembre, agognava a uscire dalla guerra, non a guerreggiare per il riscatto nazionale. Non l'8 settembre fece esplodere la guerra civile, ma il ritorno di Mussolini al potere. «La costituzione della Repubblica sociale italiana – ha affermato Renzo De Felice – è all'origine della guerra civile che ha insanguinato il Nord "occupato" e ha condizionato la successiva storia d'Italia». L'8 settembre non provocò la «morte della patria» ma il disfacimento di uno Stato, dove nel ventennio precedente, la nazione era stata coercitivamente identificata con il fascismo, costringendo molti patrioti antifascisti a invocare, con dolore, la sconfitta del propria Paese pur di liberarlo dal totalitarismo fascista, come ho ampiamente documentato ne La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, pubblicato nel 1997 (nuova edizione, Laterza 2006). E neppure la guerra civile fra due Stati italiani fu la fine del patriottismo, perché fascisti e antifascisti si combatterono in nome di opposte concezioni della patria.
La ricerca storica sull'8 settembre è andata oltre la diatriba delle metafore, come ha fatto, per esempio, Elena Aga Rossi con il libro Una nazione allo sbando. L'armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, pubblicato nel 1993 (nuova edizione, il Mulino 2003), dove appaiono evidenti le gravi responsabilità del re e di Badoglio per il modo, tortuoso, ambiguo, del tutto privo di dignità, col quale ottennero l'armistizio, mentre nello stesso tempo ribadivano, sul proprio onore, la fedeltà all'alleanza con la Germania, senza escludere del tutto la possibilità di disconoscere l'armistizio, all'ultimo momento. Fuggendo dalla capitale, afferma la storica, il re e il suo seguito si preoccuparono «non del bene della nazione, ma della propria incolumità personale», mentre «l'intero Paese fu abbandonato alla violenta vendetta dei tedeschi, che repressero sanguinosamente ogni tentativo di reazione da parte dell'esercito italiano, e punirono con la deportazione e l'internamento in Germania circa 750mila militari italiani». «I giorni della vergogna» sono state definite da Marco Patricelli le giornate della fuga da Roma e della successiva liberazione di Mussolini per mano tedesca. Nel libro Settembre 1943 (Laterza 2009), Patricelli ha analizzato il comportamento dei protagonisti della fuga, già tutti compromessi con il regime fascista fino alla vigilia della sua caduta, e tutti ora impegnati a trovare la salvezza personale attraverso «una sconcertante miscela di opportunismo, convincimento, inadeguatezza, doppiogiochismo, malafede, realismo politico, azzardo, egoismo, propaganda, con una buona spruzzata di vigliaccheria di fondo, di personalismi e di meschinità».

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