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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2013 alle ore 08:46.

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L'errore è stato leggere Bangkok days prima di partire. Così non mi sono tolto dalla testa quella storia del Peninsula per tutto il viaggio. Il memoriale di Lawrence Osborne bisognava leggerlo al ritorno, e conservare così il rammarico di non aver visto, assieme all'innocenza di non aver saputo.
L'estate non è stagione per venire da queste parti ma una riunione di lavoro mi ha portato in un palazzo delle Nazioni Unite dove tutti sembriamo spie. Saranno i nostri completi di lino, che riusciamo a tenere abbottonati solo nell'aria condizionata polare che sfida il cielo bianco e i 34 gradi di fuori, o gli auricolari della simultanea che si intrecciano con quelli dei telefonini sempre pulsanti o lampeggianti nella penombra monastica della sala di riunione.
Ho passato la domenica lungo strade che sembravano canali, fra serrande sprangate ed altre beanti come spelonche dove dopo un primo tumulo di stracci, stuoie o cesti che servivano da esca si aprivano altre botteghe ancora. Cercavo banali souvenir, per togliermi l'obbligo del ricordino, qualche maschera, un paio di ciondoli, un buddha di smilzo argento farcito con il gesso mi sarebbero bastati. Ma non c'era verso. Ero finito troppo lontano dalle rotte turistiche. Uscendo dall'albergo mi ero avviato verso nord con la vaga intenzione di provare a raggiungere il palazzo reale. In realtà fuggivo dal fiume e dalla visione del Peninsula sull'altra riva. Lo avevo scoperto solo tirando la tenda della mia stanza al Mandarin Oriental che era proprio lì, appena di là dal Chao Phraya, a portata di motogondola. Rischiai di inciampare nel grande vassoio di pesce fritto posato su quattro pietre accanto a una cabina telefonica. Il mercante mi guardò storto. Intanto cominciava a piovere. Mica qualcosa che un ombrello potesse tenere. Mi rifugiai nell'antro di un gommista, dove già una piccola folla scura si ammassava con le gambe aperte sui rivoli d'acqua che scrosciavano sul pavimento di terra battuta e disegnavano un delta per i fatti loro, fra pile di pneumatici, cric piantati nel fango e compressori così incrostati di sporcizia che ci cresceva sopra qualche rada erbaccia.
Tornai all'albergo sfinito e fradicio, con sotto il braccio un quadro thai raffigurante una scena agreste e nell'Iphone abbastanza foto per testimoniare che ero arrivato al palazzo reale.
Il giorno dopo alla fine della riunione ripiegai la giacca di lino nella borsa, mi arrotolai le maniche della camicia fino alle ascelle e fermai un tuk tuk chiedendo di portarmi al Wat Saket. «Pazzo!», mi aveva detto il mio collega olandese esperto dei luoghi. «In questa stagione non si visita, si resta in albergo a farsi fare un massaggio!» Ma io in albergo non potevo restare. Non con il Peninsula lì davanti, non dopo aver letto Bangkok days (in Italia tradotto Matteo Codignola, per Adelphi, con il titolo Bangkok, ndr).
Mi avventurai così nella visita del tempio della montagna dorata. C'eravamo solo io e una coppia di francesi brutti ad arrampicarci sul sentiero che saliva fra file di campane verso il pinnacolo lucente della cima. Una venditrice di souvenir mi rimproverò perché avevo fotografato i suoi buhdda di plastica. Rimediai comperandogliene cinque o sei. Risolto il problema dei ricordini. Peccato fossero tutti Made in China. Avevo sentito il bigliettaio sdentato dell'entrata parlare francese coi due bruttoni. Gli chiesi di più ritornando. «Ci sono bonzi qui?» chiesi senza troppi riguardi. «Sicuro! Ce n'è nel cortile del tempio di là. Hanno appena finito la preghiera» rispose sdentato. «Ma lei com'è che parla francese?» insistetti con sempre meno riguardo. «Io sono belga! Vengo qui in pensione perché costa di meno. E abito coi bonzi!» spiegò orgoglioso indicando una fila di palazzine dai tetti verdi fra palme e manghi. «Do una mano qui in biglietteria e loro mi ospitano. Ne è appena morto uno e c'è un villino vuoto». Strizzò l'occhio e concluse lui: «Poi si vedrà!»
Arrivai in albergo appena in tempo per fare la doccia e sedermi alla terrazza del ristorante con il mio collega già inquieto. Ordinai una roba thai al latte di cocco, ma l'obiettivo era stordirmi di Sauvignon. Dall'altra parte del fiume svettava tutta illuminata la sagoma del Peninsula. La riunione del secondo giorno si concluse alla spicciativa all'ora di pranzo. Tutti avevano prenotato un volo per Phuket o un massaggio. Io solo restavo fino all'indomani. Il mio collega andava dal suo sarto a ritirare un vestito e certa seta che portava in regalo alla moglie. Gli olandesi sono ancora capaci di questa squisita eleganza coloniale. A me non è mai venuto in mente di avere un sarto a Bangkok.
Quella sera cedetti al massaggio, quello thai autentico, che sono botte da orbi chiuso in un sacco, poi completai lo sfinimento con una nuotata in piscina. A cena mi rimpinzai di roba fritta al buffet bevendo birra e cocktail. Miravo a crollare addormentato, ma brillavano allettanti le luci del Peninsula sulle acque nere del Chao Phraya e allora non potei più resistere. Salii sulla kolae tutta inghirlandata che aspettava lungo il pontile e mi lasciai portare sull'altra riva. Racconta Lawrence Osborne che al bar del Peninsula si appostano a tarda sera ricche signore giapponesi venute a Bangkok con la scusa dello shopping e il pungolo della trasgressione.
Di giorno pascolano nelle boutique dell'alta moda a caccia di Fendi e Gucci poi, la sera, con le qualche migliaia di baht che gli avanzano, si rimorchiano un manzo per far venire più gioiosamente l'ora del volo di ritorno a Tokio. Così fantasticavo di essere rimorchiato io da geishe scalpitanti appena misi piede nel locale fiocamente illuminato da tremule lanterne. Secondo Osborne, le magnifiche signore le avrei trovate appartate tutte sole nelle poltroncine, con una coppa di Champagne in mano. Sarebbero venute loro ad adescarmi, dovevo solo lasciarmi prendere. Mi calai ad un tavolo davanti al panorama febbrile della città e in ogni luce vidi un bordello che palpitava, un corpo che si spogliava, un massaggio che degenerava.

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