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Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2013 alle ore 15:19.

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Il mito della storia è sgretolato. Resta un unico paradigma civile italiano a impronta collettiva: la Resistenza. Prova ne sia l'esperimento di In territorio nemico, edito quest'anno da minimum fax: il libro, romanzo collettivo scritto da 230 mani, propone, secondo i testi di presentazione della casa editrice, «una nuova epica della Resistenza». Come mai 115 scrittori contemporanei si mettono alla prova un'unica opera dedicata alla Resistenza? Per due ragioni, credo. In un'opera collettiva, va raccontata un'epopea collettiva. E poi, soprattutto, per un altro motivo. Perché la Resistenza è tutto ciò che ci rimane. Il tempo è disgregato, sezionato da schermate di social network dove un fatto, una notizia, un commento, vengono risucchiati nell'abisso pochi istanti dopo. Nulla è memorabile. Noi non siamo noi.

Un lazzo, una beffa, un gesto sacro
Com'è possibile dunque, oggi, fare della letteratura civile? Come riporta Giuseppe Genna in una riflessione del 2007, Franz Kafka parlava della letteratura come di «assalto ai limiti dell'umano». Per Giorgio Manganelli – lo si legge nel Rumore sottile della prosa – «letteratura è sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio». Per Antonio Rezza «la cultura dell'impegno civile porta alla morte delle idee».
In quest'epoca in cui nulla ci resta di collettivo, sorge una domanda: perché fare della letteratura civile?
L'impressione è che non possano esistere oggi in Italia "opere civili". Ciò che può esistere, invece, sono i libri «di civiltà». Opere saggistiche, oppure storie personali, di resistenza a questo terribile intricato mondo. I libri di Ilaria Cucchi, Licia Pinelli, Mario Calabresi, Piera Aiello. Testimonianze. Per fortuna, senza ambizioni letterarie. Si è detto, ad esempio, che Resistere non serve a niente di Walter Siti è un romanzo civile, in quanto scandaglia i viluppi italicamente endemici della finanza e del malaffare. Non è così. Nell'opera, il viaggio del protagonista Tommaso è diritto verso un obiettivo: chi è io? E il viaggio dell'autore? Sempre: chi è io? L'auspicio di Calvino sul futuro della letteratura, dunque, sembra giungere, considerando questo romanzo, a buon fine.

Scrivere un romanzo civile, oggi, rischia di essere civile nel senso pirandelliano del termine: dentro neri come corvi, fuori bianchi come colombi. C'è da aggiungere: è forse il caso – visto lo stato della cultura e dell'editoria italiana – di essere incivili nei confronti dei lettori, qualche volta. Siamo certi che il lettore debba sempre essere coccolato? Sempre cullato? Siamo certi che è sempre il caso di dire: «C'era una volta?». Forse, a volte si può tentare anche di trattarlo male: perché, come si legge nelle Lezioni americane di Italo Calvino, «la letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d'ogni possibilità di realizzazione».

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