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Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2013 alle ore 15:19.

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Come usano dire le soubrette, il cinema è sempre stato la mia passione, così quando anni fa una cineteca mi propose di stilare qualche comunicato stampa, accettai. Soprattutto avevo accesso alla sala gratis: se conoscevo una ragazza reclusa e con una vaghezza autistica per i primi piani di Dreyer, potevo sempre portarla lì senza spendere un soldo. In breve la collaborazione si diversificò e mi fu proposto di tradurre le didascalie per qualche documentario. Convinto che fosse l'inizio di una qualche carriera, rimasi male quando mi proposero di lavorare in sala. «Come maschera?» domandai, ansioso per il declassamento. «Come proiezionista. Solo che non dovrai occuparti della pellicola, ma dei sottotitoli».

Grazie ai film guardati in dvd o mandati dalla tv satellitare, siamo abituati a considerare i sottotitoli parte integrante della visione, sincronizzati a puntino. Così, quando assistiamo alla proiezione di un film, pensiamo che la didascalia sia bilanciata automaticamente sulle immagini. Non è così. Nelle cineteche e ancor più spesso durante i festival, dove i film arrivano ancora allo stato brado (e a volte lo rimangono), esiste un individuo in carne e ossa, una figura oscura che da una piccola cabina alle spalle di tutti segue il film passo per passo, parola per parola, e proietta un sottotitolo dopo l'altro schiacciando, ebbene sì, un tasto.

Fu così che cominciò la mia permanenza in un angolo cieco dello spettacolo. Come colleghi, avevo il proiezionista, la cui giornata era scandita dalle fusa che faceva la pizza mentre girava (non certo un intellettuale, sebbene come il gangster di Pallottole su Broadway ne capisse più di tanti altri), e la maschera, un vecchietto che per tutta la vita aveva strappato tagliandi e non s'era mai innamorato. Io abitavo un bugigattolo seminascosto, isolato anche dal proiezionista – che pure, se voleva scroccare una sigaretta, bussava contro il muro – dove restavo ore e ore sotto un minimo cono di luce. Davanti, un vetro che dava sulla sala e ribadiva il mio riflesso, come un doppio indegno sovrapposto alle pellicole di Welles o Chaplin. Accanto, un computer aperto su PowerPoint con una slide quasi del tutto nera, fatta eccezione per un piccolo riquadro sottostante dov'era tracciata la didascalia. Al pc era collegato un piccolo proiettore che "sparava" le parole sotto lo schermo e permetteva agli spettatori di seguire la storia.

Accanto al computer, una stampata con i dialoghi del film, per avere il quadro generale. A volte il film l'avevo tradotto io, altre ancora lo guardavo a casa e poi in sala altre cinque o sei volte, passando attraverso ogni sillaba della pellicola con l'indice che schiacciava il tasto del computer e mandava le parole. Mi calavo come uno speleologo nelle profondità semplici e imperscrutabili delle sceneggiature di Billy Wilder e I.A.L. Diamond. Un film di Lubitsch si scomponeva come Syd Field non avrebbe mai potuto spiegarmi. (Oggi che l'hanno restaurato, quando mi chiedono «L'hai visto To Be or Not to Be?» e rispondo «Sì, diciotto volte», pensano che scherzi.)
Era un lavoro semplice, con qualche insidia. Bisognava seguire i dialoghi al volo e tenere conto del tempo di lettura. Un sottotitolo mancato (un semplice: «Passami il sale») ti rimaneva sul gobbo fino a venti minuti dopo, quando invece infuriava una torrida scena di sesso. Uno spettatore svogliato non ci avrebbe fatto quasi caso, ma non gli Ossessi. Costoro, gli abitanti di una remota regione dell'Asia cinefila, erano sempre in agguato. Se lo spettatore comune per loro era un cane infedele che si accontentava del doppiaggio, neanche gli operatori erano raccomandabili. Bastava un breve fuori quadro che si mettevano a spolmonare verso la luce muta del proiettore. Gridavano «buio!» un attimo prima che fossero abbassate le luci. Chi bisbigliava qualcosa in sala veniva lapidato con le vecchie monografie del Castoro. I dialoghi all'uscita ricordavano una puntata di Fuori Orario rimixata da un cugino instabile di André Bazin con il vizio delle iperboli.

«La violenza di Refn ha un respiro whitmaniano».
«Bah, dopo i primi corti Scorsese non ha prodotto niente di buono». «Apichatpong Weerasethakul? È mainstream». Durante la proiezione di un Bergman, avendo sostituito un collaboratore febbricitante pur senza conoscere lo svedese, un collega aveva perso il filo e gli spettatori avevano assistito a un'isterica processione di sottotitoli nel tentativo disperato di ritrovare il passo del placido Max von Sydow. Di lui non s'era saputo più niente. E come dimenticare gli 894 minuti del Berlin Alexanderplatz di Fassbinder, proiettati in piena estate, sottotitolato in inglese e più sotto in italiano? Roba che avrebbe fatto girare la testa, forse le palle, perfino a enricoghezzi, il cui fantasma aleggiava in cineteca come uno spirito incapace di abbandonare il luogo dove lo spettatore comune è stato ucciso. Quando chiesi al capo come comportarmi nel caso in cui il computer s'impallasse durante la proiezione, rispose: «Vattene: non c'è niente da fare ed eviti il linciaggio».

L'altra faccia della luna erano i Mansueti, un popolo mite e sereno che si trovava bene solo in quella sala buia, con un fascio di luce sopra la testa. Vecchi intellettuali arruffati, signore sessantenni dai capelli corti e dalle gonne lunghe, hipster che al posto degli occhiali portavano le lenti NASA usate da Kubrick per girare Barry Lyndon. Vedevo la vanesia scrittrice avanti negli anni che inforcava gli occhiali da vista solo all'ultimo con il buio in sala. Osservavo il sessantenne che aveva cominciato la carriera di cinefilo cercando la posa di Paul Newman in Nick mano fredda e accontentandosi di quella di Tatti Sanguineti su Raitre. Notavo i poveri vecchietti trascinati dalla moglie alla proiezione di un Pudovkin minore («come se ne esistesse uno maggiore») e osservavo la testa canuta in strenua lotta con il biancore spettrale di La madre crollare e risorgere, crollare e risorgere. Lo guardavo emergere dalla sala e scandire la qualità del film secondo un metro di giudizio tutto suo: «Stavolta non mi sono addormentato».

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