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Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2013 alle ore 08:33.

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È triste constatarlo per un settore dove fino a qualche tempo fa sfioravamo l'egemonia continentale, ma se si vogliono vedere alcuni dei migliori film italiani dell'ultimo anno, bisogna andare all'estero. Roberto Minervini, Alessandro Pallaoro, Uberto Pasolini, Alessio Cremonini. Segnatevi questi nomi. Il più giovane ha trentun anni, il più anziano non arriva ai cinquanta. I primi due hanno girato negli Stati Uniti, Pasolini in Inghilterra, Cremonini immergendosi nelle atmosfere dell'attuale conflitto siriano.

I film in questione si intitolano Stop the Pounding Heart (storia di una famiglia ultracristiana in un Texas molto a destra di Cormac McCarthy), Medeas (anche qui, atmosfere da profondo Sud con echi faulkneriani), Still Life (un nowhere man nell'Inghilterra più grigia cerca i parenti di chi muore in solitudine per restituire qualche effetto personale), Border (girato con italio-siriani, script a firma Susan Dabbous, la giornalista sequestrata e rilasciata dai ribelli anti-governativi la scorsa primavera).

La cosa stupefacente, guardando le pellicole di questi registi nati e formatisi in Italia prima di trasferirsi altrove (Minervini a Houston, Pallaoro in California, Pasolini da tempo in Inghilterra) o coltivare il vizio di immergersi in altre culture (Cremonini scrisse Private, il film sul conflitto israelo-palestinese che Saverio Costanzo non poté portare all'Oscar perché non era recitato in italiano) è che in nessuna delle loro inquadrature troverete quelle chiassate da strapaese bisognoso di continue gite a Chiasso, quel politically correct che è la foglia di fico della sinistra più baronale, quegli inutili avvitamenti di chi crede che una ben difesa marginalità supplisca alla mancanza di talento – sognando Lynch e Cassavetes, ovvio, ma poi dimenticando che il primo, quando ci fu da esordire con Eraserhead, all'attesa-pretesa di un contributo Mibac preferì impegnarsi la casa – colpevoli di dotare l'apprezzamento estetico («bello quel film...») di una costante e odiosa sordina d.o.p. («... per essere italiano»).

Non sto parlando solo di denaro. I registi menzionati non sono andati all'estero a ottenere finanziamenti che qui risulterebbero impensabili, ma a liberarsi di tic, ricatti e tare linguistiche con cui il nostro clima culturale minaccia chiunque metta un occhio dietro la macchina da presa, e che ci porta ormai ad aspettarci i pescatori di Dolce&Gabbana quando vediamo un film di Tornatore, una profezia per immagini capace di insegnare molto al Pd e meno a chi abbia in mente Monicelli prima di un film di Moretti, l'ansia da prestazione brillantemente superata con Sorrentino, la conversione in imposta della dote dell'Oscar che fu per Salvatores. Fuori dai confini nazionali è inoltre più difficile avere la sensazione che per continuare a lavorare il risultato artistico conti meno degli sforzi necessari ad agganciarsi a un gruppo che ti protegga fino al sonno della creatività.

Non è ad esempio necessario avere a che fare con una critica (specie sui quotidiani) ormai quasi del tutto inesistente sul piano intellettuale, giornalisti culturali travestiti da André Bazin ma interessati più a gossip e maldicenze che all'estetica, adesso anche molto preoccupati da un principio di subalternità (anche economica) la quale per giudicare un film li porta sempre più spesso a domandarsi se tra chi lo ha prodotto, girato, recitato, montato e selezionato per un festival ci siano amici o nemici, potenziali pigmalioni o vecchi sassolini nelle scarpe. E allora meglio fuggire.

Tra gli italiani all'estero citati, i casi di Minervini e Pallaoro mi sembrano i più interessanti, emblematici anche per certi motivi ricorrenti. Entrambi (il primo marchigiano, il secondo di Trento) si sono trasferiti negli Usa, e tutti e due sono stati attenti a evitare sia gli intellettuali di New York che i chiassosi vampiri di Los Angeles. Hanno raccontato l'America più profonda e reazionaria, quella che legge la Bibbia e considera il porto d'armi un diritto inalienabile, Sarah Palin un personaggio televisivo e un cavallo imbizzarrito più affidabile di una stretta di mano di Woody Allen. In particolare, Stop the Pounding Heart di Minervini (presentato all'ultimo Cannes) è un film di rara bellezza, in cui poesia, crudeltà e rigore estetico sono in magnifico equilibrio.

Per due mesi Minervini ha convissuto con una famiglia di allevatori (padre, madre, dodici figli) dopo essersene guadagnato la fiducia. Ha frequentato la loro comunità, girato 80 ore poi ridotte a 98 minuti montati in modo da trasformare un documentario in una vicenda (vera) di finzione. Così il film è diventato la storia di Sara, una ragazza che trascorre l'adolescenza sotto il magistero dei profeti veterotestamentari, in un contesto in cui sottomettersi all'autorità paterna, mungere capre e osservare una donna incinta che spara al poligono appartiene alla normalità, e che comincia ad andare in crisi quando conosce Colby, allevatore di tori e cowboy. I due si stanno innamorando. Ma (qui il colpo di genio di Minervini) a differenza dei loro coetanei di Williamsburg o del rione Monti, Sara e Colby non possiedono gli strumenti per assecondare e prima ancora decifrare compiutamente la natura dei propri sentimenti.

Non sanno in pratica cosa gli sta succedendo. Da qui una crisi come non si vedeva dai tempi di Jimmy Dean (o se volete Quentin Compson) con Sara che sospira in preda al panico tra le braccia di sua madre la quale, amorevole e mostruosa, sussurra: «Smetti di far battere forte il cuore».

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