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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2013 alle ore 08:20.

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Nato nel 1918, orfano di padre, laureato in matematica, a lungo un marxista e un leninista convinto (il miscuglio di «un marxista e di un democratico», dirà di sé più tardi), Aleksandr Solženicyn era un capitano dell'Armata Rossa quando la polizia sovietica lo arrestò nel febbraio 1945. A guerra non ancora finita. Lo acciuffarono mentre era accucciato nel fango e nella neve bagnata di una postazione da cui stavano sparando contro i tedeschi. Gli «Organi» avevano intercettato le lettere che l'ufficiale ventiseienne si scambiava con un amico e dove non erano dette cose gentili a proposito del «Capobanda», ossia di Stalin. Di più, i due amici si proponevano di dare vita a «un'organizzazione» che riunisse quanti pensavano tutto il male possibile del comunismo reale nel loro Paese. A norma dell'articolo 58 del codice penale sovietico quella non era una colpa, era un crimine. Dieci anni di lager li prendevi per molto meno. Durante gli anni Trenta, un idraulico in camera sua spegneva la radio al momento in cui l'annunciatore leggeva con voce enfatica le lettere adoranti inviate a Stalin. Venne denunciato da un vicino di casa e beccò otto anni. Il più delle volte erano condanne comminate da un Tribunale amministrativo che non abbisognava né di udienze né di testimoni né della presenza fisica dell'imputato, sentenze comunque inappellabili.

Alle spalle del giudice istruttore che cominciò a interrogare Solženicyn, stava un ritratto in figura intera di Stalin alto quattro metri. Tra giudice e imputato non c'era molto da battere e controbattere, c'era solo da firmare carte in cui l'accusato riconosceva di essere un poco di buono. Da ufficiale dell'Armata Rossa Solženicyn era divenuto uno Zek, ossia «un detenuto» e tale rimarrà per undici anni, fino alla riabilitazione del 1957. Undici anni trascorsi prima nel lager e poi al confino, celle dov'era rinchiuso ora con un altro detenuto ora con altri 150. Nasce da questa esperienza uno scrittore che è tra i simboli irrinunciabili del Novecento. Prima che lo arrestassero in tutto e per tutto aveva compilato quattro taccuini in cui aveva registrato quello che aveva visto con i suoi occhi durante tre anni e mezzo della guerra furibonda contro i tedeschi, guerra che lui aveva combattuto in prima linea. I taccuini glieli sequestrarono all'istante ma non ci diedero mai un'occhiata, tanto che andarono a bruciare in una stufa. Tutto quel che è di Solženicyn e ne porta le stimmate sta nascendo adesso, durante i primi interrogatori fatti da un giudice istruttore che porta delle mostrine celesti sulla sua divisa e che non ha il minimo interesse a scovare una verità, sia essa fatta di colpa o di innocenza. Il suo solo interesse è aggiungerne un altro alla sterminata sequenza di colpevoli che il regime macina ed erutta da quando è nato, dall'Ottobre 1917, e subito Vladimiro Ulianovic Lenin aveva minacciato di schiacciare tutti gli «insetti» che osassero contrapporsi al dominio pieno e assoluto dei bolscevichi. Non c'è un prima e un dopo nella storia della vittoria politica del bolscevismo, c'è che quella vittoria assume fin dal primo istante i tratti dello sfacelo organizzativo di ogni segmento del Paese e dell'assenza delle più elementari libertà. Si chiama comunismo, bellezza. Ed è l'unico comunismo possibile. Non ce ne sono mai stati altri sulla faccia della Terra.

Neppure è vero che una tale violenza e libidine distruttiva appartenessero congenitamente a un Paese arretrato e selvaggio quale l'Urss. In quell'Urss del ventesimo secolo dove si stava celebrando fastosamente il centenario della morte di Alexandr Puškin, scrive Solženicyn, e dunque al tempo del cinema sonoro e della radio e degli aerei in volo, decine di migliaia di belve addestrate dal credo comunista presero a fare – quanto a torture e violenze nei confronti di dissidenti e prigionieri politici – quel che in Russia era divenuto impossibile già ai tempi di Caterina II. Quanti conobbero le prigioni zariste e le prigioni staliniane non ebbero dubbi su quali fossero le più disumane. Prendevano una donna e la facevano stare seduta per sei giorni e sei notti su uno sgabello in un corridoio: non poteva alzarsi né dormire né cadere. «Provate voi a starci per sei ore così» scrive Solženicyn. Oppure succedeva che a un accusato facessero ingoiare a viva forza dell'acqua salata e che per una settimana gli negassero l'acqua. Ovvio che dopo una settimana quello confessava di essere stato una spia antibolscevica fin dall'età della culla. Il fatto è che nell'Occidente degli anni Trenta e fino a metà dei Cinquanta erano in tanti a credere a quelle confessioni, e non soltanto militanti comunisti quali l'attore e cantante francese Yves Montand: che di averci creduto farà più tardi radicale ammenda.

NON ERA UN DONO
Nell'itinerario di lettori di ciascuno di noi, ci sono libri che uno si danna per il fatto di non averli letti. Ancora a luglio scorso io non avevo mai letto l'Arcipelago Gulag il libro-monumento cui Solženicyn aveva lavorato per dieci anni, e me ne vergognavo. Finché non ne ho trovato in libreria una edizione aggiornata pubblicata da Mondadori nel giugno 2013. Poco meno di 1400 pagine, tre chilogrammi di peso. La prima edizione ne era apparsa in Francia in lingua russa nel 1973, un libro il cui manoscritto era arrivato in Occidente di soppiatto, allo stesso modo del Dottor Živago di Borís Pasternàk e di Vita e destino di Vasilij Grossman. Se c'è un libro che ha cambiato le mappe del sentire comune occidentale, è di certo l'Arcipelago Gulag. Tutto vi era inedito e moralmente fragoroso, a cominciare dall'entità e dall'orrore di un tale universo concentrazionario nel Paese che per quarant'anni era stato indicato quale il «faro del socialismo». Quel libro fu una miccia che accese tutt'altre piste e un tutt'altro linguaggio nella storia culturale europea, a cominciare dall'avvento dei nouveaux philosophes in Francia. Quanti di noi che pure avevano letto dei lager nazi fin dal liceo, sapevano che fosse esistita la rete di campi siberiani della Kolyma disseminati in uno spazio più grande della Francia? E tanto più che quel libro ostinato e terrificante era destinato innanzitutto a noi lettori occidentali. Non che fosse un dono, era uno schiaffo in volto. Il gesto sprezzante di uno che non ci perdonava il non aver voluto vedere e sapere dei lager staliniani dei Trenta e dei Quaranta, la sofferenza atroce di milioni e milioni di russi, i treni che scorrazzavano carichi di deportati ridotti allo stremo, gli scantinati della Lubianka dove li uccidevano di notte con nove grammi di piombo sparati alla nuca, il fatto che quanti avevano «girato la manovella del tritacarne» nel 1937 continuassero a vivere indisturbati nell'Urss dei Sessanta e dei Settanta. (Solženicyn scrive che sino al 1966 la Germania aveva processato 86mila criminali nazisti. Nello stesso periodo per crimini commessi nel periodo staliniano in Urss ne erano stati processati in tutto 30.) A noi che in un modo o nell'altro avevamo condiviso l'aura della sinistra, a noi che avevamo gli scaffali delle nostre librerie pieni di testi di Lenin o di Trockij o di libri einaudiani comunque ammirativi dei «dieci giorni che sconvolsero il mondo», apparve lunare la sagoma di quest'uomo che se l'era legata al dito l'indifferenza dell'Occidente, le sue false verità, i suoi colossali abbagli dettati dall' "Ideologia", il suo quieto vivere nei confronti di boia e assassini fra i più spietati del secolo. E passi per il libro dell'esordio di Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič, un racconto che era stato già pubblicato in Urss nel 1962 e che molti di noi lessero nella versione einaudiana di Raffaello Uboldi. Ma quello era un libro dalla valenza essenzialmente letteraria, un racconto breve e una testimonianza, un'opera tutto sommato commestibile per chi aveva creduto che il comunismo sovietico avesse rappresentato una forma superiore di società umana. Tutt'altra cosa, tutt'altro pugno in faccia l'Arcipelago, e tanto più per un Paese dove l'italocomunismo era stato una realtà vasta e profonda che aveva toccato le anime di tanti. Valeva soprattutto per l'Italia quel che Solženicyn diceva al modo di un'insegna: «Mentre voi vi occupavate piacevolmente degli inoffensivi misteri del nucleo atomico, studiavate l'influsso di Heidegger su Sartre e collezionavate riproduzioni di Picasso o partivate per la villeggiatura in comode carrozze ferroviarie, i cellulari scorrazzavano senza posa per le strade e gli agenti della Sicurezza bussavano e suonavano alle porte». No, l'Arcipelago non era commestibile per una larghissima parte del pubblico italiano di sinistra o ex di sinistra. Perché svelleva in profondità convinzioni e identità talmente diffuse. Leale come sempre, Gian Carlo Pajetta confessò che non lo avrebbe mai letto. Mai. Solženicyn personaggio lunare era per noi occidentali e tale è sempre rimasto. Gli dicevi di sì con la testa, ma non con il cuore. Negli anni del suo esilio dall'Urss l'Occidente lo ha ospitato, mai amato. Né lui era pronto al benché minimo accomodamento.

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