Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2013 alle ore 14:03.

My24

Il linguaggio pubblico si è fatto più sudicio delle stalle di Augia, e non c'è Ercole che possa sobbarcarsi in un giorno la fatica delle pulizie, tanto l'aria è appestata da parole vane, sciocche, inutilmente astruse o anche soltanto brutte.

Un fiume purificatore dovrebbe spazzar via le mille locuzioni stereotipate (la schiena dritta, il ditino alzato), le parole svuotate da un uso inflazionistico (golpe, fascismo, comunismo), gli accoppiamenti pregiudiziosi (liberismo selvaggio, garantismo peloso), la partenogenesi dei neologismi (malpancista, doppiopesista). Ma queste non sono che mosche, per restare al mitologico letamaio. Perché a intasare le stalle nazionali sono parole ben più ingombranti, che ostruiscono il linguaggio ma soprattutto il pensiero, e che generano senza tregua malintesi, equivoci, ambiguità. Alcuni se ne servono con malizia, altri soggiacciono al loro incanto senza colpa. La confusione delle lingue, intanto, non fa che crescere.
Nel 1799, a Venezia, il gesuita Ignazio Lorenzo Thjulen pubblicò il Nuovo vocabolario filosofico-democratico, un pamphlet antigiacobino nel quale sosteneva che la Rivoluzione era stata più perniciosa del castigo di Babele, avendo confuso non solo le lingue ma anche le idee. La parte più consistente del dizionario si intitolava appunto «Vocaboli che hanno mutato senso, significazione ed idea», ed era un primo esperimento di Newspeak orwelliano, dove ogni termine finiva per designare il suo contrario: «Molti popoli, ingannati da falsi vocaboli e mal intesi, hanno corso dietro a tutto ciò che in realtà detestavano».

Qui non c'è stata nessuna rivoluzione, ma un po' di ordinaria pulizia non guasta.
Antipolitica. Quando questo ceto politico finirà sepolto sotto il peso della sua dabbenaggine, una parola dovrà essere scolpita a lettere d'oro sulla sua lapide, accanto alle date di nascita e di morte: antipolitica. E non perché a travolgerlo saranno le mille cose affastellate sotto questa insegna, ma precisamente perché, si dirà, non seppe trovare di meglio per etichettare il nemico e le sue armate imbelli. Antipolitica, è appena il caso di dirlo, è parola abissalmente stupida. Così stupida che perfino un avvistatore di scie chimiche, un ossessionato dal Bilderberg, un esperto di nanoparticelle annidate nelle merendine può svelarne il trucco e convincersi, con qualche ragione, di essere più illuminato del nemico. Più che una parola, antipolitica è un'attrezzatura masochistica che aziona due autolesionismi convergenti: per un verso dà l'immagine strategicamente suicida di un sistema assediato che si arrocca dietro torri merlate; per altro offre il più ingenuo degli assist, una comoda «alzata» per lo schiacciatore più schiappa. Che dirà: «Noi non siamo l'antipolitica, siamo contro questa politica. Siamo per un'altra politica». Vedete? Alla portata dello scemo del villaggio. E basta frugare un po' in rete per constatare che l'obiezione l'hanno fatta propria, appunto, villaggi interi di scemi del villaggio. Galvanizzati dall'occasione di ottenere, se non il warholiano quarto d'ora, un quarto di minuto d'intelligenza.

Bene comune. Non che la formula non abbia un senso, fin dai tempi di Tommaso d'Aquino. Il problema, semmai, è che ne ha troppi, che scivolano promiscuamente l'uno nell'altro. Ermanno Vitale, nel pamphlet Contro i beni comuni (Laterza), ha provato a mettere un po' d'ordine nel caos, ed è fatica erculea anche questa. Ribolle di tutto, in questo calderone ideologico e verbale: i vagheggiamenti di un inesistente Medioevo precapitalistico dove tutti si spartivano in armonia le ricchezze della Terra, i filosofemi fanta-marxisti di Toni Negri, i miraggi di qualche contrada esotica (la Bolivia di Evo Morales, il Chiapas del subcomandante Marcos), la sopravvalutazione allucinatoria di microsperimentazioni locali elevate a esempio generale, come il Teatro Valle occupato a Roma. Tutti i nodi vengono al pettine in un manifesto, Beni comuni del giurista Ugo Mattei, che Vitale smonta pezzo per pezzo, e da cui pesca brani immaginifici come questo, in puro stile Casaleggio Associati: «Si va imponendo sempre più una visione che vede Gaia come una comunità di comunità ecologiche, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e relazioni diffusi, secondo modelli di reciprocità complessa». Umano o meno? Di sicuro c'è qualcosa di umano, troppo umano in certi usi del bene comune nel dibattito italiano.

Si può dire che è una delle varianti indigene di quella che Jean-François Revel chiamava la grande parade: la chiassosa e variopinta sfilata, ma anche parata in senso calcistico, che ha consentito a molti ex comunisti di aggirare con noncuranza il piccolo ostacolo del 1989. Rifoggiandosi, all'occasione, un'identità da benecomunisti. Ma il primo problema è che non si sa quali e quanti siano i beni comuni (l'acqua? la cultura? internet?) e a chi siano comuni (alle città? alle nazioni? all'umanità intera?). Leggiamo lo Statuto della Fondazione Teatro Valle: «Il bene comune non è dato, si manifesta attraverso l'agire condiviso, è il frutto di relazioni sociali tra pari». Che vuol dire, per esempio, nel caso dell'acqua? Che uno porta l'idrogeno e l'altro l'ossigeno? Ma al di là dell'autointossicazione gergale, la questione, in fin dei conti, è capire chi ha titolo per decidere cosa è bene comune e cosa non lo è. E quando si tratta di sottrarre un bene al comune (in senso amministrativo) e proclamarlo bene comune, la vaghezza della formula è d'aiuto. Potremmo quindi uscirne così: bene comune è ciò che i depositari del marchio Bene Comune™ designano come tale. E se non lo è, lo occupano.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi