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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2013 alle ore 09:40.
L'ultima modifica è del 23 novembre 2013 alle ore 09:40.

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Queste osservazioni sono state al centro di parecchie critiche al libro di Eggers, che è stato accusato di essere, per il suo semplicismo, al limite della satira involontaria. Ma tali critiche ignorano il fatto che Eggers, in romanzi precedenti, si è mostrato abilissimo a padroneggiare la complessità e la sfumatura.

Come mai in questo caso non ne ha sentito il bisogno – e anzi ha perseguito deliberatamente il bianco-e-nero? Non posso rispondere per Eggers, ma posso rispondere per me. Qualcosa di simile era vero nella mia breve distopia sulla democrazia digitale: proprio per giustificare questo schematismo l'avevo definita, nella prefazione, un «pamphlet in forma narrativa» anziché un romanzo vero e proprio. Si scrive di futuro anche con uno scopo latamente politico: per analizzare un problema presente e renderlo evidente agli occhi del lettore – e a questo fine ci si concede una semplificazione di tutto ciò che non è funzionale all'esposizione della tesi. Questo, sì, rientrerebbe nei canoni della fantascienza classica. Un po' come chi negli anni Sessanta chiudeva un romanzo post-apocalittico poteva uscirne convinto di doversi impegnare per il disarmo nucleare, si può immaginare che la distopia 2.0 abbia lo scopo di portare i lettori ad allontanarsi dai social network e tornare a una forma di comunicazione più diretta e umana. Io, ad esempio, appena ho finito di leggere il romanzo di Eggers ho chiuso il mio profilo su Facebook, ho cancellato dal cellulare Snapchat e WhatsApp e sono uscito a correre sui prati.

Non è vero. Anzi: come moltissimi lettori del libro, una delle prime cose che ho fatto dopo aver terminato il romanzo è stato scriverne e discuterne sui social network. Non ho neppure messo in discussione per un attimo l'ipotesi di non farlo: e non per adesione ideologica alla filosofia della trasparenza del Circle, ma semplicemente perché fanno parte, nel bene o nel male, della mia vita, in modo molto diverso da come i deserti postatomici o l'apocalisse dei robot potevano essere considerati parte della vita (ipotetica, futura) di chi ne leggeva ai tempi. Sono già qui.

Eggers, che pure non usa Facebook, non poteva ignorare questa circostanza: ha deciso di scrivere una predica, e ha deciso di predicare agli inconvertibili. In questo aspetto, credo, The Circle rivela qualcosa di molto più ampio circa il nostro rapporto con la trappola dei social network: sappiamo che è già scattata, e in fondo ci va bene così. Da una parte, tutto ciò di positivo che promettono – la trasparenza, la raggiungibilità, l'interconnessione – ciò che avrebbe costituito l'elemento utopico di un libro di fantascienza a riguardo, è già inserito nella nostra vita. Non avrebbe senso farne fantascienza, perché è realtà. D'altra parte – e questo è più rivelatorio – appartiene alla realtà anche la distopia che ne deriva, in certa misura.

Chiunque usi Facebook si stupisce o si preoccupa quando appare un suggerimento automatico tarato con particolare precisione sui suoi gusti, o quando pensa che larga parte delle sue interazioni sociali, dei suoi viaggi e delle sue preferenze degli ultimi anni sono registrati lì, teoricamente in eterno, accessibili a lui e a chi ha i soldi per farlo. Siamo consapevoli, più o meno tacitamente, del potenziale di controllo, della perdita della privacy, del rischio implicito nel nostro comportamento. Eppure questa consapevolezza non ci impedisce di taggarci nelle foto, di fare check-in su Foursquare, di elencare i nostri libri preferiti per i nostri amici e per gli specialisti di marketing di tutto il mondo. Per questo in The Circle è stato necessario portare all'estremo – un estremo tutto sommato implausibile – la contrapposizione fra vita offline e distopia autoritaria: ogni contrasto più sfumato e complesso sarebbe stato né più né meno di ciò che viviamo ogni giorno un istante prima di "condividere" con migliaia di sconosciuti qualcosa di personale. Ed è anche per questo che tale contrapposizione, e il futuro nero che prospetta, non produce un desiderio di cambiamento: è un dilemma che abbiamo già attraversato. Abbiamo già scelto.

Per questo, in quanto romanzo di fantascienza il libro di Eggers fallisce: non riesce a dare un'immagine al contempo credibile e non già nota della trappola dei social network – non ci spiega la nostra paura. Ma da una prospettiva più ampia, tutte le sue limitazioni ne fanno un documento estremamente preciso di quella paura, un sintomo dell'ambiguità del nostro rapporto con i social network. È un sintomo in controluce: l'ambiguità che identifica è proprio ciò che manca ai personaggi del libro. Loro, schematici e semplificati, non vedono la trappola in cui stanno cadendo. Noi, realistici e complessi, la vediamo bene: e ci finiamo lo stesso.

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