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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2013 alle ore 08:16.

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Ogni volta che, costeggiando le mura vaticane, più o meno all'altezza dell'ingresso dei Musei, mi imbatto in una fila lunga più di un chilometro di esseri umani stoicamente accalcati, pronti ad affrontare le più devastanti intemperie pur di ammirare – per non più d'una decina di minuti – le stanze vaticane, mi chiedo: chi glielo fa fare? Ha senso che lo facciano? Io lo farei al loro posto? Affronterei pioggia, freddo, tempesta o solleone, per non dire della noia e della frustrazione, per Michelangelo? No che non lo farei. Non credo che esista opera d'arte che meriti tanta abnegazione, e soprattutto un simile compendio di disagi.

Le opere d'arte non sono lì per farti fare la fila. Le opere d'arte ti concedono il loro profilo migliore, il più allettante, quando sei in completo relax. Sono talmente esigenti da pretendere il tuo benessere fisico e psicologico, la tua attenzione devota, come una bella donna che ti si dona. Qualcuno di voi leggerebbe mai Anna Karenina su un piede solo e con una mela poggiata in testa? Qualcuno di voi affronterebbe mai la cucina di un famoso chef giapponese con lo stomaco in subbuglio? Credo di no. E allora perché siete disposti a sobbarcarvi tormenti danteschi per vedere la volta della Sistina?

Un paio di anni fa in Vietnam, dopo una settimana di vita decadente e sedentaria, decisi che era venuto il momento di vedere il famoso fiume Mekong, il mio omaggio personale a Francis Ford Coppola e a Marlon Brando. E oltre a questo un cedimento alla vocetta subdola che da giorni mi tormentava: «Ma come sei in Vietnam e non vai a vedere il Mekong?». Naturalmente, sebbene il Vietnam sia ormai un posto per alcuni aspetti più civile di Roma, non funziona che chiami un taxi in albergo e dici al tassista: «Mi porti al Mekong». La trafila è più lunga. Devi affidarti a quei tour operator che, a loro volta, organizzano gite giornaliere, e talvolta addirittura settimanali. Devi fidarti di loro. È quello che feci. Mi pentii di averlo fatto salendo sulla Jeep che partiva dal nostro albergo, vedendo la mise dei miei compagni di viaggio, e comparandola alla mia, del tutto inadeguata. Sembrava un ballo in maschera dal titolo: «Indiana Jones sulle rive del Mekong». Il resto del racconto ve lo risparmio. Non ha senso stare lì a rievocare l'aria mefitica, gli sciami di insetti misteriosi e carnivori, la melma in cui affondavano le mie scarpe inappropriate. Vi basti sapere che, più o meno nel mezzo del cammino, feci la fine di Dante: e svenni. Questa esperienza mi fornì più che un valido pretesto per non andare a visitare la non meno celebre (pare, bellissima) baia di Along. Solo in seguito venni a sapere che quel paradisiaco pezzo di natura è stato letteralmente prostituito. E che la scena che si gode dalla piccola chiatta che ti porta da un'isola all'altra non è meno sconfortante delle file di fronte ai Musei vaticani o quelle di fronte al Louvre.

Il turismo di massa. Ecco il punto. Il turismo di massa ha creato una specie di ridicolo paradosso: il paradiso per tutti. Ma basta leggere il Vangelo per sapere che se c'è un luogo esclusivo, be', quello è il Paradiso. E che in ogni modo il Paradiso deve prevedere vitto e alloggio comodi, solitari e impeccabili.

John Ruskin, il grande esteta inglese ormai quasi del tutto dimenticato, raccomandava al turista che si accingeva a visitare la famosa cattedrale di Chartres l'acquisto di certi deliziosi dolcetti smerciati da un fornaio all'angolo della piazza. Non credo lo facesse solo per motivi estetizzanti: regalare al visitatore una deliziosa sinestesia. Ruskin desiderava che il visitatore entrasse nella cattedrale ben disposto: bocca dolce e sensi distesi. Insomma il suo era il consiglio di un grande viaggiatore che sapeva come affrontare le opere d'arte. È evidente che se oggi tutti i visitatori della cattedrale di Chartres seguissero il suo consiglio la suddetta pasticceria verrebbe presa d'assalto come certi supermercati americani durante la Guerra del Golfo. Altri tempi, quelli di Ruskin. All'epoca erano pochi a viaggiare, e ancor meno quelli che si potevano permettere pasticcini. Il che facilitava il compito. Il cosiddetto Grand Tour era appannaggio di una manciata di individui privilegiati, sfaccendati e romantici. Il turismo di massa ha cambiato le cose. Oggi tutti (o quasi tutti), almeno in questo emisfero del pianeta, hanno accesso a tutto o a quasi tutto.

Un volo low cost, un trenino, un sacco a pelo, un po' di pazienza e puoi gustarti il Louvre in lungo e in largo. Ma ci risiamo. La domanda è sempre la stessa: ha senso provare a godersi Le nozze di Cana di Veronese in quelle condizioni ambientali? Con la gente che parla, che ti spinge, che ti ciondola vicino come dopo un disastro atomico? Dopo aver sopportato chissà quante peripezie per guadagnarti il diritto di vedere quell'immenso capolavoro soffuso di gioia e di nostalgia. No che non ha senso! E sono certo che Veronese stesso sarebbe stato d'accordo con me. E allora Veronese? Ti perdi Veronese? Sì, me lo perdo. E che cosa fai allora, non vai al Louvre? Certo che no.

E allora cosa fai a Parigi? Semplice: sto a Parigi, mi godo Parigi, i boulevard, i bistrot, le hall degli alberghi, i piccoli angoli, i musei che nessuno visita, i cinema alle undici del mattino, il Paris Saint-Germain. Le vetrine eleganti di Rue de Sèvres e i ristoranti orientali di Rue St. Anne... Mi godo i parigini, anche se non li sopporto, anzi soprattutto perché non li sopporto. A questo proposito il grande Giorgio Manganelli scriveva: «Viaggiare insegna che tutti gli uomini sono uguali, viaggiare insegna che tutti gli uomini sono diversi. Ho appena finito di rileggere Il Milione, e ho imparato che tutti gli uomini sono fratelli e sono incomprensibili. Non si viaggia tra cose, palazzi, montagne, si viaggia tra uomini; ognuno nasconde itinerari, labirinti, parla con sé nei propri sogni una lingua che non comprendiamo, ma di cui cogliamo le strane, struggenti modulazioni».

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