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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2013 alle ore 08:23.

Quello che cerco di dire è che investire troppo su un incipit può essere rischioso.
Del resto, l’inesausta ricerca dell’incipit giusto è una malattia relativamente recente. Mica è sempre stato così. Agli albori del romanzo gli scrittori non avevano tutta questa ansia di stregare il lettore sin dalla prima riga. Le loro ambizioni erano più modeste. Credevano che per precipitare un lettore in un mondo nuovo occorresse cautela e discrezione. Per questo non disdegnavano lunghe premesse. Antefatti più o meno fuorvianti. Digressioni implausibili su manoscritti ritrovati. Nessuno scrittore oggi si potrebbe permettere tanti convenevoli. L’offerta editoriale è così vasta, l’accesso al libro così immediato che un lettore ti concede poche righe: se non lo convinci subito ti abbandona. È quella che Oscar Wilde chiamava la prova del cucchiaino. Se non la superi sei fritto. L’incipit di Illusioni perdute di Balzac non l’avrebbe superata. Il libro parte con una pedestre, macchinosa analisi della condizione della stampa nella provincia francese all’inizio del Diciannovesimo secolo. Be’, quale editore permetterebbe a uno scrittore un inizio del genere? Mi pare già di sentire la voce chioccia dell’editor di turno: «È un suicidio». C’è da dire che probabilmente Balzac avrebbe seguito il consiglio dell’editor. Era un tipo incline alle lusinghe del pubblico. La ragione per cui ha iniziato il suo romanzo più celebre in modo così tedioso è che a quel tempo la religione dell’incipit non era stata ancora inventata. Con questo non intendo dire che gli incipit erano tutti noiosi o interlocutori.

Basta spostarsi di qualche centinaio di chilometri a Nord, nell’austera Inghilterra, e troviamo subito incipit superbi. Sentite qui:
Avrei voluto che mio padre e mia madre,
o in verità entrambi, poiché entrambi
erano tenuti a farlo, pensassero a quello
che facevano quando mi hanno concepito.

È l’inizio del Tristram Shandy di Laurence Sterne. Non è sorprendente? Sembra scritto ieri sera.

O sentite questo:
Londra.
Già, proprio così: «Londra», e subito un bel punto. Evidentemente l’autore di questo incipit sa che non serve altro. Londra è ciò di cui ha bisogno. Il resto, quel che viene dopo – pioggia, nebbia, fango, comignoli –, per quanto mirabile, è persino superfluo. Ah, dimenticavo: così inizia Casa desolata di Charles Dickens. Troviamo un analogo indugio su alcuni motivi atmosferici nel celebre incipit de L’educazione sentimentale di Flaubert. Siamo di nuovo in Francia: Parigi stavolta, sulle rive della Senna, anche qui non manca la nebbia. Un piroscafo sta per partire.
Il 15 settembre 1840, verso le sei
di mattina, il Ville-de-Montereau
pronto a partire fumava grosse volute davanti al quai Saint-Bernard.

Come nel caso di Dickens, si tratta di un incipit descrittivo: l’azione si svolge in un certo secolo in una certa città in un certo momento della giornata. Insomma il tipo di incipit che Elmore Leonard, nel suo demenziale decalogo, sconsiglia vivamente allo scrittore, perché «il lettore è pronto a saltare le pagine per cercare le persone». A parte che, parafrasando Disraeli, verrebbe da chiedersi: «Che cosa ha fatto per noi il lettore per meritarsi tante attenzioni?». Ma poi chi lo dice che l’atmosfera nella narrativa conti meno dei personaggi?
Quasi in contemporanea a L’educazione sentimentale esce L’idiota di Dostoevskij (già, fu un’ottima annata editoriale). Anche qui, con buona pace di Leonard, c’è un mattino autunnale offuscato dalla nebbia e uno sfumacchiante mezzo di locomozione:
Sulla fine di novembre, con un tempo umido e freddo, verso le nove del mattino,
il treno di Varsavia arrivava a tutto vapore
a Pietroburgo. Così fitta era la nebbia,
che a stento albeggiava: a destra
e a sinistra, dai finestrini del vagone,
era difficile distinguere qualche cosa.

Ed ecco come sulla scia del piroscafo di Flaubert
s’infila Henry Roth nell’attacco di Chiamalo sonno:
Il vaporetto bianco, il “Peter Stuyvesant”, che scaricava gli immigranti dal tanfo e dal pulsare della classe ponte al tanfo e al pulsare dei casamenti di New York, ondeggiava appena sull’acqua accanto al molo di pietra dalla parte sottovento delle baracche stinte e delle nuove costruzioni in mattoni di Ellis Island.
Del resto, a dispetto di quel che si pensa, l’incipit atmosferico è un classico intramontabile. Anzi, pare quasi che gli scrittori sempre più abbiano aspirato alla scientificità del metereologo.
Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso Nord. Le isoterme e le isotere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica.

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