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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2013 alle ore 09:09.

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Quello che non è: non è un polemista attrezzato, non è un lettore disarmato ma consapevole dei propri limiti, ma – soprattutto – lo schiantato non è un troll. "Troll" è la parola con cui viene in genere indicato chiunque bisticci sull'Internet, epperò – fuor d'uso improprio – il troll ha un vantaggio incolmabile sullo schiantato: non gliene frega niente.
Quando ti cita in un tweet o ti commenta su Facebook, il troll sta avviando una guerra di nervi della quale ha il più completo controllo, e il suo divertimento è farla durare.

Se «provocazione» non fosse ormai una parola da talk show, potremmo dire che il troll è un provocatore. È quello che ama di meno nella canzone di Marco Ferradini (o nella vita): non può che vincere. Se al troll non importa né del tema di cui si sta discutendo né di te, lo "schiantato" (quello che nella canzone di Ferradini va in bianco) prende a cuore tutto.
Quando alla fine sbotti, cancelli, abbandoni i social e l'internet tutta, il troll sbuffa: «S'è rotto il giocattolo». Lo schiantato gioisce, scambiando la (tua) esasperazione per una dimostrazione della (sua) ragione. Lo schiantato ci tiene. Lo schiantato quel giorno dirà agli amici che t'ha rimesso al tuo posto, lui. A metà degli anni Novanta lavorai per qualche mese a un programma condotto da una soubrette all'epoca all'apice della fama. Un giorno, fuori dagli studi televisivi, due signore apparentemente normali si avvicinarono per comunicarle che loro proprio non la guardavano, proprio non la approvavano, proprio non la trovavano di loro gusto. C'è sempre da imparare dalle soubrette: quando le signore si allontanarono, lei disse una cosa tipo: «Mi fanno impazzire quelli che proprio ci tengono a farti sapere che non gli piaci». Sarebbero passati dodici anni prima che mi iscrivessi al mio primo social network, e non sapevo di avere appena assistito al mio primo episodio di ordinaria amministrazione da parte di una calamita per schiantati.

Stabiliamo una scala di misura dello schianto, quello di Wile Coyote giù dal dirupo, quello di Gatto Silvestro contro il muro lasciando la sagoma. Diciamo che lo zero è qualcuno abbastanza sano di mente da essere troppo pigro per notificare la propria disapprovazione persino al capufficio o alla moglie, figuriamoci a uno sconosciuto. Il dieci sarà Mark David Chapman (il tizio che sparò a John Lennon solo perché lo stato sociale non gli forniva la valvola di sfogo di creare la pagina Facebook "John deve morire"). In quella scala lì, le due signore cui non piacevano le scosciature della soubrette erano un cinque: dire «lei non mi piace» era il loro tentativo d'essere originali rispetto a quel «mi fa un autografo?» con cui avevano paura non le si notasse abbastanza. Un sette erano, negli stessi anni e in quelli precedenti, quelli che uscivano per andare a imbucare una lettera a un giornale. Qualunque sia l'opinione che ti urge notificare a un giornale di cui sei lettore, caro lettore che mi stai leggendo e che probabilmente ci hai scritto giusto ieri, sappi che sei malato di mente. Sappi che avrai le tue ragioni, che di certo le tue opinioni sono validissime e argomentatissime e risolutivissime, ma no, scrivere a un giornale non è normale.

In anni successivi la ricerca della busta e del francobollo e della buca venne per tutti sostituita da più comode caselle email, e quindi il livello di disturbo mentale scese a quattro: devi solo cliccare, lo fai in ufficio invece di giocare a Tetris (nel passato prossimo) o di scrivere porcate a sconosciute su Msn (presente assai imperfetto), fai comunque lo sforzo di mandare a memoria tutti i miei articoli per dirmi quanto li trovi poco interessanti, ma almeno per essere molesto non devi infilarti il cappotto e trovare un tabaccaio. E poi vennero i social network. E i computer che conservano in memoria le password. E quei sistemi, implementati da giornali sempre smaniosi di sapere cosa pensa il pubblico (sindrome della zitella disperata applicata all'editoria), per cui se leggi il tal articolo il tuo computer è già pronto per farti commentare: sei già registrato con il tuo account di Facebook o di Twitter, non serve neanche compilare i campi per identificarsi, devi solo puntesclamativare il tuo dissenso, sarebbe quasi uno spreco non farlo. Lo fai. Sei uno schiantato del 2013, e il tuo livello di disturbo mentale è così diffuso da non poter essere che considerato basso. Lasci la sagoma nel muro, ma ce ne sono talmente tante che non la si distingue. È difficilissimo farsi notare, poveri schiantati d'oggi.

Forse solo il golf fa lo stesso effetto degli schiantati a chi non ce l'ha come hobby: una totale incomprensione del come possa risultare divertente. Se non è roba per te, non capisci come possa esserlo per qualcun altro, magari qualcuno che stimi. E non è per te se ti viene da fuggire da quell'inferno di libertà d'espressione, se prendi sul serio le obiezioni dei passanti, o le correzioni di chi non sa di cosa parla, o le accuse di chi ha deciso che «ah!, ora gliele canto». Se pensi vadano tenuti in considerazione tutti, anche quello che – non potendo avvicinare Bianca Balti per domandare supplichevole una parola, un bacio, una foto col cellulare – le dà del mezzo cesso in centoquaranta caratteri, e poi purtroppo deve sconnettersi subito perché, dalla cucina, la signora Pina gli sta strillando di piantarla con quell'internet e portare giù l'umido. Se sei così, alla fine probabilmente ti cancellerai, abbandonerai quel covo d'indegni della tua attenzione e delle tue controbiezioni, e non perché tu sia un debole in generale: magari sei un cazzutissimo direttore di tg o l'autore di alcune delle più famose sceneggiature della storia della tv. Eppure gli schiantati per te sono troppo. Un gusto acquisito che proprio non sei riuscito a far tuo.

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