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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2014 alle ore 10:26.

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«Il cittadino totale non è, a ben guardare, che l'altra faccia non meno minacciosa dello stato totale». Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, 1984. Per Bobbio si trattava di due lati della stessa medaglia. Stato totale e cittadino totale hanno lo stesso principio: «Che tutto è politica, ovvero la riduzione di tutti gl'interessi umani agli interessi della polis, la politicizzazione integrale dell'uomo, la risoluzione dell'uomo nel cittadino, la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica». Trent'anni dopo, il futuro di cui scriveva Bobbio è il nostro presente. All'epoca non si parlava ancora di democrazia digitale eppure il filosofo già affermava: «L'ipotesi che la futura computer-crazia, com'è stata chiamata, consenta l'esercizio della democrazia diretta, cioè dia a ogni cittadino la possibilità di trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico, è puerile». Il merito di ricordare le parole di Bobbio va a Fabio Chiusi, autore di Critica della democrazia digitale (in uscita a marzo per Codice edizioni). A distanza di trent'anni siamo ancora alle prese con quell'ipotesi puerile. I cittadini totali sono diventati digitali. Chiusi si chiede, «alla luce delle speranze che da decenni continua invariabilmente a suscitare, a prescindere da qualsivoglia rapporto con i fatti e i risultati prodotti», quali risultati ha prodotto fin qui questo modello.

Capita, nell'Italia del 2014, di trovarsi di fronte a tecnoentusiasti fermi da vent'anni alla «repubblica elettronica» di cui parlava nel 1995 – quasi 20 (venti) anni fa – Lawrence K. Grossman. Un modello politico in cui «i cittadini potranno partecipare maggiormente e in modo più diretto alla politica determinando essi stessi le leggi e le strategie di governo. Attraverso la maggiore diffusione degli strumenti di telecomunicazione digitale bidirezionale a banda larga, il cittadino si sta guadagnando un proprio posto al tavolo del potere politico», scriveva Grossman. La profezia continuava: «Sebbene cresca l'insofferenza della popolazione nei confronti del governo, l'inesorabile processo di democratizzazione, insieme ai consistenti passi avanti delle tecnologie interattive, sta trasformando la gente nel nuovo quarto ramo del governo. Nella repubblica elettronica non sarà più la stampa ma la gente a rappresentare il quarto potere dello Stato».

Quest'ultima riproposizione del cittadino totale non è altro che una variante aggiornata agli anni Novanta della classica utopia della democrazia diretta. Possiamo risalire all'origine del mito: l'Atene del quinto secolo avanti Cristo. Ma è, appunto, un mito. Già nella polis l'assemblea del popolo non aveva tutti i poteri. C'erano magistrati eletti o estratti a sorte. Qualcuno era più totale di qualcun altro – per tacere degli schiavi. La democrazia diretta non era diretta – e non era democrazia – neanche alle origini. L'idea di togliere di mezzo la delega parlamentare però resiste nei secoli, e come osservava Hans Kelsen, negli anni Venti portava «a un'ipertrofia non sospettata del parlamentarismo stesso». Evidente soprattutto in un caso: «la Costituzione sovietica». Una legge «che si oppone scientemente e intenzionalmente alla democrazia rappresentativa della borghesia». Un sistema organizzato in «parlamenti piramidiformi chiamati "sovieti" o "Consigli" che sono semplicemente assemblee rappresentative», scriveva Kelsen.

Chiusi nota un'analogia tra l'organizzazione sovietica e «il caos di forum, pagine di discussione e polemiche che accompagnano le strutture orizzontali odierne». Spesso gli esperimenti condotti in questo campo si risolvono in «litigi, paralisi decisionale e incapacità di tutela delle minoranze». Non si tratta di futurologia. Il saggio fa un bilancio aggiornato, completo di dati e analisi, degli esperimenti condotti fin qui. Superando la divisione stantia tra tecnoentusiasti e tecnoscettici. Il giornalista e studioso della Rete si sofferma sui casi italiani ma anche sulle sperimentazioni su più larga scala in Svizzera e California. Tutte hanno generato più perplessità che apprezzabili progressi in fatto di partecipazione e qualità della democrazia. Insomma, l'alba delle nuova era rivoluzionaria della Rete tarda ad arrivare. «E non si capisce per quale motivo il cambiamento che finora non si è mostrato neanche di sfuggita dovrebbe fare improvvisamente irruzione sulla scena», scrive Chiusi. Ciò nonostante gli aspiranti cittadini totali si moltiplicano. Seguaci odierni di «un'idea antiquata di futuro». Un'idea che solo in Italia può essere scambiata per contemporanea con venti – o duemilacinquecento – anni di ritardo e di fallimenti alle spalle.

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