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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2014 alle ore 08:35.

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Tutte le famiglie normali sono infelici allo stesso modo; ogni famiglia disfunzionale è infelice a modo suo. Wes Anderson ha elevato la malinconia a fenomeno glamour globale e l'adolescenza quarantenne a condizione aspirazionale per tutti noi. Secondo il fondamentale galateo del nuovo secolo The Hipster Handbook (2002) di Robert Lanham, Anderson è "il" regista per eccellenza, oltre a essere ai vertici della classifica «star per cui avere una cotta», subito dietro a Beck e a Edward Norton. Otto film di cui almeno uno già entrato nell'inconscio collettivo, I Tenenbaum (2001), Anderson è il principe emaciato della nuova malinconia globale che apre il cuore e fa vendere i profumi dei massimi marchi mondiali.

Alto, magro, diafano, metrosexual in tweed e cachemire europei, però texano rigorosamente etero, porta il sentimento di un bimbo sensibile al cinema, in un packaging impeccabile che mischia Truffaut, boy scout, Calvino e Huckleberry Finn, e tutto un bagaglio e una pelletteria da ceto medio-alto riflessivo del Sud traducendolo anche in primari spot non solo per Prada, per cui ha fatto tre commercials per il profumo Candy e il corto Castello Cavalcanti, ma anche per Stella Artois, Hyundai, American Express.

Ogni cosa non è illuminata in Anderson, il cui trauma primario è il divorzio dei genitori, all'età sua di otto anni, riconosciuto «l'evento più cruciale della mia vita» che l'ha portato a una sorta di incapsulamento dell'infanzia e alla vita come fonte secondaria; i suoi film sotto spirito, divisi in quadretti e incorniciati da didascalie come in etichette di marmellate di infanzie sognate o negozietti organic, sono popolati da adulti che non crescono mai, che fumano di nascosto dai genitori e dagli sposi anche alle soglie della mezza età, che non fanno mai sesso: e «i cattivi non sono cattivi davvero», secondo una canzonetta italiana, e le morti che pur esistono e le pugnalate e gli spari suonano falsi, e manca solo la bandierina con la parola "bang", perché in Anderson come nel mondo dei bambini la morte non esiste.
Gli umani non funzionano mai, sono depressi, delusi, autolesionisti, si fanno male, si fanno mozzare le dita, raccontano bugie, vanno da analisti pessimi, amano sempre la persona sbagliata, sempre troppo giovane o troppo vecchia o troppo incestuosa: invece gli oggetti sono lì, smaglianti nonostante l'età. Nascosti o impolverati ma sempre al loro posto e funzionanti; Margot Tenenbaum ritrova dopo decenni la sigaretta nascosta sotto un certo coppo sul tetto di casa; ingranaggi e macchinari sono sempre a posto, moto e motorette e auto e trenini partono al primo colpo, in certi armadi di casa Tenenbaum sai sempre di ritrovare il vecchio Scarabeo e il vecchio Monopoli. Gli oggetti sono sempre rassicuranti: però come per Charles Swann nella Recherche devono avere una storia, e solo rispecchiandosi in essi gli umani possono sperare di sopravvivere. Margot Tenenbaum sarebbe niente senza la sua pelliccetta, e il fratello Chas senza la tuta, e Max Fischer di Rushmore senza il suo blazer.

E poi acquari, terrari, vecchi libri, vecchi dischi, vecchi giradischi. Sempre valigie, molte valigie, in The Grand Budapest Hotel sono Prada, ma spesso Louis Vuitton, come nel Treno per il Darjeeling, le uniche che poi usava Luchino Visconti, un altro perfezionista, per via delle stesse iniziali LV. Tutto vintage e tutto un production design a volte asfissiante, e però poi sboccia sempre la tenerezza, e papà anche pessimi e cialtroni si fanno perdonare e traumi brutti si superano, basta stare insieme, basta condividere qualcosa, e dev'essere questo il segreto di Anderson e del suo soft power intimista che poi incrocia in pieno il fenomeno hipsteristico: recupero di modernariato, back to the roots organico, occhiali vetusti e zenzero fresco, e vecchie letture e disprezzo di tutto ciò che è nuovo e per le masse; e rifiuto collettivo inconscio di diventare giustamente grandi in un mondo reale post-crisi dei subprime e degli spread; meglio restare piccini, e tornare all'amore per la maestra, alla casa sull'albero, ai sentimenti, a quando eravamo tutti un grande Paese (e dunque non si vorrebbe uscire poi mai dal cinema, e tornare all'orrida realtà – «vorrei vivere in un film di Wes Anderson», sempre la stessa canzonetta).
Lui viene probabilmente da una famiglia di squilibrati di talento: nato a Houston nel 1969, il padre pubblicitario ma anche scrittore, la madre antropologa, archeologa ma anche agente immobiliare. Poliedrici e sofferenti e però molto uniti; racconta chi lo conosce, che gli Anderson si riuniscono sempre per il Ringraziamento. Il regista è anche molto legato ai fratelli Mel, medico, ed Eric Chase, illustratore in voga le cui opere ricorrono nei film andersoniani. Poi ci sono i fratelli "adottivi" Wilson, anche loro texani e anche loro figli di un pubblicitario oltre che presidente della tv di Houston; all'università di Austin, Anderson stringe amicizia con Owen, studente di letteratura inglese, che poi scriverà con lui diversi film, ed è il suo migliore amico e alter ego attoriale; ma è legato anche ai fratelli Luke e Andrew. Altra famiglia elettiva è quella composta da Bill Murray, Anjelica Huston e Willem Dafoe, suoi attori-icone. Poi c'è una fidanzata reale, Juman Malouf, scrittrice ma anche designer di vestiti, figlia di un'autrice molto importante in Libano. A lei ha dedicato Moonrise Kingdom (2012).

Tra le famiglie elettive andersoniane poi c'è soprattutto l'über-clan dei Coppola, con cui Anderson rafforza la sua dimensione fighettistica globale. Roman, figlio di Francis Ford, ha scritto con lui Il treno per il Darjeeling, Moonrise Kingdom (nomination all'Oscar) e il corto felliniano Castello Cavalcanti, oltre ad aver diretto con lui Candy per Prada. In Castello Cavalcanti il protagonista è il meraviglioso Jason Schwartzman, volto di Rushmore e con ruoli anche in Il treno per il Darjeeling, Fantastic Mr. Fox, Moonrise Kingdom e nel prossimo The Grand Budapest Hotel; oltre a essere cugino di Roman Coppola e aver fatto Luigi XVI in Marie Antoinette di Sofia (sempre Coppola). La quale, sposata con Spike Jonze, regista di Essere John Malkovich e ora di Her, atteso manifesto hipster degli anni Quindici, e poi risposata col leader dei Phoenix (musica giusta french touch), costituisce l'anello finale di congiunzione di Anderson con un'altra cerchia di bling ring planetario sospirante e adolescente.

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