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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2014 alle ore 11:33.

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Da anni ormai, ogni vera o presunta crisi economica si traduce in tagli feroci alle spese in cultura (scuola, università, ricerca, teatro, musica, musei, tutela del paesaggio e del patrimonio culturale), e simultaneamente in vendite o svendite del patrimonio immobiliare storico di proprietà pubblica.

Questa simultaneità, raramente messa in rilievo, ha un significato ben preciso: il patrimonio culturale (accumulato dagli italiani nei secoli) viene trattato come un salvadanaio da spaccare per toglierne – e sperperare – tutti i risparmi, e al tempo stesso la formazione e produzione culturale viene concepita come un vago e vano optional, di cui si può benissimo fare a meno. Superflua come ingrediente del presente e del futuro, la cultura ha spesso per chi ci governa la sola funzione residua del gruzzoletto sotto il materasso di una nonna un po' svanita. Ma questa nonna è l'Italia, e l'Italia siamo noi.

Si deve a Tremonti, che peraltro riprendeva idee già correnti dal tempo di Guido Carli ministro, l'iniziativa più radicale per smantellare lo Stato e spartirne le spoglie: la «Patrimonio dello Stato SpA», che colpiva al cuore l'inalienabilità dei beni demaniali per gettarli sul mercato. Fallito quel progetto per la corale opposizione in Italia e fuori (fu lo stesso Tremonti, nella sua ultima incarnazione da ministro, a liquidare la SpA), è ancora in piedi un piano alternativo per ottenere lo stesso risultato. L'idea è semplice: privatizzare il più possibile, ma polverizzando le vendite in venti regioni e ottomila comuni, onde dirottare dal governo l'indignazione dell'opinione pubblica e disperderla in mille rivoli. La drastica riduzione dei finanziamenti pubblici agli enti locali ha fatto il resto, fino alla legge 133/2008 che impone a regioni, province e comuni di allegare al proprio bilancio un «piano di alienazioni immobiliari», incoraggiando i Comuni a introdurre varianti urbanistiche per commercializzare i lotti alienati. Il «federalismo demaniale», una legge Calderoli che meriterebbe anch'essa il nome di Porcellum, ha poi trasferito a comuni e regioni quasi ventimila unità del demanio statale, per un valore nominale di tre miliardi, gettandole di fatto sul mercato in varia forma, dalla vendita alla concessione al versamento in fondi immobiliari.

In questa corsa al disarmo e al ribasso, nulla è più a rischio delle caserme, fortificazioni e arsenali di cui l'Italia, specialmente lungo tutto l'arco alpino, è ricchissima. Tanto è vero che un piano di dismissioni del demanio militare è stato avviato alcuni anni fa dal ministero della Difesa, che addirittura si presentò con un proprio stand a qualche salone immobiliare. Per citare solo alcuni casi su cui si sta molto discutendo, a Verona è in corso di privatizzazione mascherata, a opera del Comune, il mirabile Arsenale asburgico, struttura militare intitolata a Francesco Giuseppe e seconda per imponenza solo a quella di Vienna; a Peschiera del Garda la spettacolare Fortezza è stata destinata a residenze e centro commerciale con la benedizione della direzione ai Beni culturali del Veneto, che ne ha autorizzato l'alienazione; a Pavia l'arsenale di primo Novecento è stato recentemente messo in vendita a trattativa privata, e il Piano di Governo del Territorio vi prevede la costruzione di circa quattrocento appartamenti.

In questo quadro, quel che accade delle fortificazioni vicine a Venezia ha uno speciale valore, e un significato più che simbolico a livello nazionale. Anche qui il demanio militare ha dismesso i forti del campo trincerato, ma il Comune ha potuto fortunatamente acquisirli al proprio patrimonio (compreso Forte Marghera che fra tutti è il più grande). La logica conseguenza, secondo una recente dichiarazione di Gianfranco Bettin, è che i forti vengano concepiti come «aree di pregio ambientale, manufatti storici di valore, luoghi di aggregazione, per il tempo libero, per la produzione culturale»; ed è certo positivo che, secondo la stessa dichiarazione, «l'attuale amministrazione abbia annullato la scelta di conferire il Forte in project financing a una grande impresa, scegliendo invece di puntare a una gestione pubblica».

In questo percorso virtuoso vi sono stati e vi sono tuttavia degli ostacoli e degli interrogativi. L'acquisizione dei forti è durata troppo (almeno sette anni), e intanto il Comune nel 2000, in attesa di perfezionare l'acquisto, ne aveva dato la gestione a Marco Polo System, un'organizzazione che si occupa di marketing territoriale, e che si è mossa ignorando le associazioni locali, senza apprezzabile contrasto da parte del Comune. Fu su questa stessa linea di abdicazione alla propria funzione (che dev'essere di raccordo fra pubblico interesse e iniziativa dei cittadini) che il Comune nel 2009 affidò il piano di recupero a Impregilo, con un piano di project financing perfezionato nel 2011. Questa scelta è stata fortunatamente capovolta con le decisioni più recenti, ma restano ancora in piedi domande importanti, a cui questo piccolo libro propone alcune risposte: in clima di privatizzazione generalizzata (prima domanda), che cosa è stato fatto da chi ha gestito il Forte tutti questi anni? In che stato si trova oggi e di chi è la responsabilità? E oggi che il project financing è caduto, quale (seconda domanda) sarà il processo con cui si intende arrivare alla nuova destinazione del Forte? Si riuscirà a tenere nel debito conto la forte presenza di associazioni che hanno promosso la conoscenza e la mobilitazione popolare intorno a questo tema, e dunque le loro proposte e ipotesi di lavoro? Si potrà creare in questo luogo una sorta di "azionariato popolare", che ne faccia la proiezione di meccanismi di cittadinanza attiva?

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