Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 11:03.

My24

Il ministro? Ma che, sei matto?». B. è un grande amico mio, ha quarant'anni, è romano, sta facendo una rapida e meritata carriera nell'unica tecnostruttura rimasta in un Paese di tensostrutture, ci vediamo per un aperitivo a Monti proprio il giorno dopo il giuramento di Matteo Renzi, cioè 24 ore dopo l'arrivo dei Giovani al Potere, e cioè giovani mica tanto, i nostri coetanei insomma; evento comunque che ci angoscia molto, se ci mettiamo qualche bicchiere per ammetterlo sinceramente.

«Ma che, sei matto?», mi dice, perché per scherzo gli ho chiesto se lui, richiesto, lo farebbe, il ministro.
Io e B. da qualche giorno siamo in preda ad ansie nuovissime: io ho appena letto sul Sunday Times Magazine una guida per il maschio che si avvia ai quarant'anni – ne ho 39 – e dice che devi smettere di fumare, che devi smettere di bere, che la muscolatura si riduce di un 1 per cento l'anno così come il testosterone. B. invece ha appena finito un trasloco, ma soprattutto è stato appena promosso a dirigere un ufficio importante della sua tecnostruttura; questa cosa lo angoscia molto, si sente addosso una grande responsabilità, pur essendo molto preparato, e io penso e gli dico che sarebbe un ottimo ministro dell'Economia, «se fossimo in un Paese normale», che è il solito refrain che ci siamo detti mille volte. Solo che questa volta potrebbe capitargli sul serio. O meglio, potrebbe capitare a qualcuno della nostra generazione. E il salvifico "in un Paese normale" adesso ci fa paura. B. dice appunto «ma che, sei matto?». Il fatto è – ce ne rendiamo conto subito davanti a un prosecco scadente, rifiutando il piattino di aperitivi a pagamento ma chiedendo patatine e olive gratis (l'austerity ormai introiettata) – che l'arrivo dei giovani al potere, cioè della nostra generazione, e magari la trasformazione in un Paese normale, non ci piace per niente. Cioè, c'è modo e modo. E non è una cosa solo nostra.

Sono giorni di consultazioni, di squadre di Governo, si dice che molti (Oscar Farinetti di Eataly, Renzo Rosso di Diesel) abbiano rifiutato; io faccio una mia squadra di fantacalcio governativa: alla mia amica R., che è un'efficientissima organizzatrice e assistente, fino a qualche mese fa dicevo che sembra la poliziotta-coach cattiva che in Lunar Park la casa editrice mette alle costole di Bret Easton Ellis-narratore tossico; adesso le ho detto che la metterei agli Interni al posto di Alfano. Ad A., invece, che è un grande ufficio stampa e sa sempre tutto di tutti facendo finta di non sapere niente, gli darei certamente la delega ai Servizi, invece di Minniti. Loro non si divertono per niente, però. R. dice, seria: «Preferivo la coach cattiva di Bret Easton Ellis».
Insomma, siamo abbastanza ubriachi, a questo punto, per ammetterlo. Eravamo contenti di essere fuori dai giochi. C'era qualcosa di dolce nella decadenza, o almeno c'era fino a qualche giorno fa, qualche giorno prima del 22 febbraio. Ci si sentiva comunque ancora abbastanza giovani in un Paese di vecchi (a Roma ti dicono «ce sta questo ragazzo», nei negozi, fino a cinquant'anni), però era chiaro che il nostro tempo era passato. E che l'avevamo sfangata. Oltretutto, a me e a molti di noi (i migliori?) i giovani non erano mai piaciuti. Ci piacevano i vecchi, ci piacevano gli amici dei nostri genitori, ci piacevano i nostri nonni fichissimi. I nostri coetanei, essendo come noi – per la nota sindrome di Groucho Marx – ci sembravano indegni di essere frequentati.

E poi essere giovani quando eravamo giovani noi non era per niente fico: non avevamo internet, non avevamo gli iPhone e WhatsApp; non eravamo appetibili neanche come sbocco di marketing, figuriamoci a noi stessi. Adesso che finalmente eravamo invecchiati abbastanza, nel Paese dei grandi vecchi, avevamo stabilizzato i nostri baricentri interiori, progettavamo una terza età adolescenziale: proprio adesso arrivava il Governo Giovane al potere; e ci veniva chiesto di assumerci le nostre responsabilità. Col cavolo. Molti di noi piuttosto sarebbero scappati in montagna; nessuno si sarebbe preso la briga di guidare il Paese irredimibile e sfasciato coi diktat della cattiva Europa, oltretutto in tempi di viaggi al Quirinale in Smart e Panda e non in Thema e 164. Perché noi certi tempi gloriosi li avevamo vissuti, o almeno registrati: e ci piacevano le memorie di Claudio Martelli, con la villa sull'Appia Antica presa perché vicina all'aeroporto militare di Ciampino, per gli scapestrati voli di Stato, altro che spending review.
«Ma che, sei matto?», mi ripete B.; lui è già abbastanza ansiato di suo, ha quindici persone da gestire nel suo nuovo ufficio, e «ti rendi conto che responsabilità?». Ma chi glielo fa fare, a quelli, pensiamo davanti a questi prosecchi scadenti (siamo diventati tutti esperti di vini e di cibi). Ci eravamo appena abituati darwinianamente a un Paese per vecchi, ci eravamo rassegnati all'irrilevanza, la carta stampata era finita, l'unica cosa seria rimasta in questo Paese era la ristorazione, diceva appunto l'antropologa Arianna in Boris. Mentre i distretti industriali sfiorivano, noi ci eravamo inventati il distretto del lamento, con scarse sinergie e scarso valore aggiunto: però funzionava, era anticiclico. Era bello, lamentarci. Sobriamente. Certo non coi toni inurbani e millenaristi di molti, non firmando appelli né stigmatizzando fughe di cervelli. Neanche costruendo carriere televisive o giornalistiche sul lamento, come molti hanno fatto; fondatori di Fondazioni under 30 e 35 e 40, mano a mano che l'età avanzava. Saccheggiatori di un incolpevole Cormac McCarthy e declinando all'infinito il suo titolo. Era pieno, fuori, di denunciatori di sfruttamenti e finte partite Iva e abusivismi e call center e precariati. Si creavano anche carriere molto originali, vituperando caste anche giornalistiche, riuscendo così finalmente a entrare a farne parte.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi