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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2014 alle ore 11:03.

Noi invece ci si lamentava calvinisticamente solo in privato, neanche risparmiandoci: in un gigantesco riflusso, si lavorava, si compravano biciclette e case coi mutui, si votava alle primarie, si viveva di memorie, si decideva di vivere a Roma tra le rovine, ci si fidanzava, si soffriva. Si applicava il pattern esistenziale dei Tagliati Fuori non solo alle professioni, ma anche alle afflizioni, e, co.co.pro. nel lavoro, si era freelance anche nell'amore, e si sceglievano per i mutui durate trentennali e per le relazioni tassi variabili puri, senza Cap. Si scommetteva sulla recessione infinita, abituati al format infinito della politica Carta Argento; che però un grande vantaggio l'aveva: non ci avrebbe mai chiesto di scendere in campo, di sporcarci le mani. Invece di un Grande Fratello, c'era sempre stato un Grande Anziano al comando: c'era un Grande Presidente Anziano al comando, uno Sporcaccione-Anziano in gara da vituperare, un Aspirante Emiliano Anziano Per Bene che non avrebbe mai vinto, sostenendo che «le campagne elettorali non spostano voti» e poi facendo campagne tv col prete della sua infanzia, che diceva che era comunista anche da piccolo, però che bravo bambino (nel frattempo l'überanziano Andreotti moriva, assai dolcemente, e il nostro regista nazionale più importante ne traeva immagini sontuose).
E noi quasi quarantenni ci sentivamo al caldo e al sicuro, eravamo contenti, perché eravamo nel frattempo troppo giovani per interferire con la realtà e cambiarla, e troppo vecchi per scardinarla. Non eravamo per niente nativi digitali, non eravamo neanche nativi antiberlusconiani. Eravamo compromessi con l'antico regime, come dice nel Gattopardo il principe di Salina rifiutando – al cavaliere Chevalley che tenta di convincerlo – un seggio al Senato torinese. Senato gratuito e onorifico, come lo vorrebbe oggi il Premier Giovane. Anche noi eravamo compromessi: eravamo nati nel boom, e avevamo incontrato molti mali di vivere a nostra insaputa: avevamo visto la guerra in Bosnia durante la maturità, Mani pulite e le bombe i primi anni di università, e le Torri gemelle e l'euro appena sbarcati nel mondo del lavoro. Appena ci avevano informati della Fine della Storia, la Storia era ritornata molto carica, insieme anche al suo bel Clash of Civilizations, per usare due titoli molto in voga un tempo.

Eravamo sempre in ritardo: ci eravamo appena abituati a un premier che litigava con Reagan, e subito ecco le monetine all'hotel Raphaël: si sperava nella Seconda repubblica, e poi ecco il ventennio berlusconiano, e poi le mignotte, e poi l'euro cattivo e l'austerità, i Governi tecnici, e infine i Giovani. Quando erano arrivati i Giovani noi eravamo già sfiniti. Non avevamo più la facoltà di mentire a noi stessi (sempre Il Gattopardo), ne avevamo viste troppe o troppo poche, mentre il premier giovane a quarant'anni aveva «la forza di un ragazzo ma l'esperienza di un uomo», come Alberto Sordi-Dentone ne I complessi. Noi invece ci sentivamo come Nathan Zuckerman nel rothiano Il fantasma esce di scena: vecchi inermi con problemi prostatici, alle prese con rivali muscolosi e sgomitanti. Le nostre energie le avevamo perse per strada: non si poteva più fare la svalutazione. Rimanevano la ristorazione e la lamentazione.
Se l'età imperiale austriaca, come scrive Stefan Zweig, un grande lamentoso, ne Il mondo di ieri. Ricordo di un europeo, era «l'età della sicurezza», noi ci eravamo sparati tutta quella dell'insicurezza. Il declino italiano era stato forse meno violento di quello austriaco, ma gli effetti su di noi simili. «La nostra valuta circolava sotto forma di lucenti monete d'oro, assicurando così la sua immutabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, che cos'era permesso e che cos'era proibito. Ogni cosa aveva una sua norma, un peso e una misura precisi», scrive Zweig nel suo libro ispiratore di un altro quarantenne lamentoso-creativo, Wes Anderson. «Questo senso di sicurezza era il bene più alto cui potessero aspirare milioni di persone, l'ideale di vita comune». Per noi questo mondo magico, al netto degli scossoni dell'Italia nel serpentone monetario dello Sme, era finito con gli anni Ottanta, e poi erano cominciate le bolle delle dot.com e delle tigri asiatiche, e infine la crisi dei subprime e poi degli spread. Adesso, esausti, con le nostre lauree e i nostri dottorati, ci eravamo finalmente rassegnati. Un po' di carriera l'avevamo fatta; si erano realizzati i sogni di provincia, si lavorava nei giornali prestigiosi; solo che i giornali prestigiosi non avevano più i soldi per pagarci. Assistevamo col ghigno degli anziani, allora alle novità, e la consolazione sadica era guardare a quelli che venivano dopo di noi.

Era anche colpa dei nostri genitori, naturalmente (e questo lamento era parte importante del distretto). E loro ci davano spesso ragione. La prima generazione – noi coetanei del Premier Giovane – figli dell'irresponsabilità. I nostri genitori erano stati architetti e avvocati e ingegneri e insegnanti e self made men, avevano fatto il Politecnico e la Statale okkupata e gli esami di gruppo, avevano soprattutto molto contestato, e a quarant'anni finalmente si erano messi a lavorare o avevano smesso di lavorare ed erano andati in pensione o in campagna o a Ibiza, e oggi vivevano davanti a Sky a guardare il tennis e il calcio e orgogliosamente fieri di essere gli ultimi a percepire pensioni italiane decorose, accantonate quando si poteva stampare moneta e fare spesa pubblica. Da baby boomers a baby pensionati, senza passare dal senso di colpa, loro, verso genitori che viceversa avevano fatto la guerra, messo su imprese e negozi, spesso più volte causa bombardamenti, mangiando non biologico e forse fumando anche, campando ugualmente fino a novant'anni e amando senza complessi le belle macchine e i bei viaggi e i vestiti. Noi volevamo stare sempre con loro, i nostri nonni da Peggiori intenzioni, e mai coi nostri genitori da ceto medio riflessivo. Ci piacevano i vecchi, lo avevamo sempre saputo, e ci sembrava di essere nel Paese giusto per questo tipo di culto: compromessi con l'antico regime, paralizzati, un po' depressi, ma vivi. Come la mummia leopardiana, «lieta no, ma sicura dall'antico dolor». Adesso, così ci coglieva il Governo dei Giovani. Arrivavano a chiederci coi loro abiti sgargianti e le loro Smart di credere e combattere. Mentre noi volevamo solamente stringerci felici in tinello a guardare Renato Zero che cantava I migliori anni della nostra vita. Come il nostro anziano più prestigioso, già reso immortale dal nostro regista nazionale più importante, che aveva preso l'Oscar con una storia di un vecchio nel pieno di una elegante decadenza tra le rovine.

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