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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2014 alle ore 08:20.

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I droni entrano sulla scena pubblica americana in esatta coincidenza con l'uscita degli Stati Uniti dal disastro militare del Vietnam. Il 26 febbraio 1973, quando l'amministrazione Nixon ha firmato da un mese gli accordi di pace e va completando il ritiro delle forze armate dalla penisola indocinese, in un'audizione parlamentare i vertici dell'Air Force riconoscono di avere segretamente impiegato, nel corso della guerra, i cosiddetti Uav: gli Unmanned Aerial Vehicles che finiranno per essere designati come droni. Non erano ancora mezzi da combattimento. Erano aerei senza pilota non armati, mezzi di sorveglianza. Ma proprio la lezione dolorosamente imparata attraverso la guerra del Vietnam – la crescente intolleranza dell'opinione pubblica verso l'idea che in una guerra muoiano anche i "nostri" – faceva dei droni, nei programmi statunitensi di sviluppo militare, l'arma letale del futuro.
Senza attendere le dichiarazioni ufficiali dell'Air Force, fin dal gennaio di quel 1973 un bimestrale dell'intellighenzia americana di estrema sinistra, «Science for the People», elegge i droni a protagonisti della guerra a distanza prossima avvenire in un articolo intitolato Toys against the People, or Remote Warfare. Articolo di informazione e insieme articolo di denuncia, che la rivista presenta allora come una variazione orwelliana («ci stiamo forse avvicinando al 1984?»), ma che noi siamo costretti oggi a rileggere come un'anticipazione precisa del nostro presente oltreché del nostro passato prossimo: come un quadro fedele dell'evoluzione cui l'arte della guerra è andata incontro durante l'ultimo quarantennio, e in particolare dopo lo spartiacque rappresentato dall'11 settembre 2001.
La guerra del futuro – spiegavano gli anonimi autori militanti di Giocattoli contro il popolo – sarebbe stata una guerra aerea pilotata a distanza. Rispetto alla guerra tradizionale avrebbe consentito notevoli risparmi economici, ma soprattutto avrebbe garantito un decisivo vantaggio politico. Avrebbe zittito qualunque opposizione interna, perché con le imprese dei droni, quand'anche fallite, non ci sarebbe stato più neppure un soldato americano ucciso in combattimento o fatto prigioniero di guerra: «I giocattoli non hanno madri o mogli per protestare contro la loro perdita».
Il problema della guerra aerea pilotata a distanza sarebbe stato, piuttosto, il venir meno del concetto stesso di zona di guerra: perché «il mondo intero costituisce un nemico potenziale delle forze armate americane». Cioè il problema sarebbe stato, in fondo, il venir meno della differenza tra ricognizione e combattimento. Dunque, in ultima istanza, il venir meno della differenza tra pace e guerra. Al limite, il venir meno della differenza tra illusione e realtà. «Ogni mattina, dopo avere abbracciato la moglie e avere penato nel traffico delle ore di punta, i guerrieri da telecomando si siederanno davanti ai loro schermi al ministero della Pace», pronti a schiacciare un bottone per colpire il nemico dovunque si trovi.
Non era fantascienza quella immaginata dal collettivo editoriale di «Science for the People»: era l'annuncio delle modalità secondo cui la cosiddetta guerra al terrorismo sarebbe stata combattuta nell'età di George W. Bush e soprattutto di Barack Obama, mediante funzionari militari o civili capaci di colpire in Pakistan o in Somalia da un ufficio climatizzato dell'Arizona o del Nevada. E anche per questo – per l'inquietante sua portata profetica – quell'articolo americano del 1973 ha funzione di epilogo nell'ultimo libro di un autore tra i più originali e controversi della scena intellettuale francese, lo storico-filosofo Grégoire Chamayou. Pubblicato oltralpe lo scorso mese di settembre, Teoria del drone è stato prontamente tradotto in Italia per i tipi di DeriveApprodi.
Intellettuale militante di sinistra, già in un suo libro del 2010 Chamayou si era fatto studioso delle Cacce all'uomo, dalla Grecia di Aristotele alla Francia di Sarkozy, attraverso la Spagna di Sepúlveda e l'America del Ku Klux Klan. Ora, Chamayou si concentra sui droni come sulla forma storica di un diritto di conquista trasformato in «diritto di inseguimento». Dietro la riduzione del nemico a preda, individua un «terrorismo di Stato» che trasforma la guerra tradizionale in campagna senza confini di esecuzioni extragiudiziarie. Ragiona della nuova forma di sovranità esercitata con i droni, una sovranità non più orizzontale ma verticale, non più territoriale ma aerospaziale. Denuncia il rischio che la nuova guerra combattuta a distanza, e a prescindere dalle frontiere statuali, finisca per distruggere le basi stesse del diritto internazionale.
Chamayou spinge la sua Teoria del drone fino a impostare un confronto fra i droni e i kamikaze: «Armi senza corpo» gli uni, «corpi senza armi» gli altri. E Chamayou suggerisce che i droni rappresentino qualcosa come il capitale dei ricchi del Nord del mondo, scatenato – una volta di più nella storia – contro il corpo dei poveri del Sud. La guerra totalmente asimmetrica dei droni come la forma contemporanea e suprema delle vecchie guerre coloniali, ma una forma tanto più aberrante in quanto, avendo cancellato ogni differenza tra ricognizione e combattimento, cancella il fondamento sul quale ha provato a reggersi, dal Dopoguerra in qua, il diritto internazionale umanitario: la distinzione tra civili e militari. I droni come lo strumento maligno di una «necroetica» imperialista, quella degli americani (e degli israeliani), che rimpiazza i più sacrosanti princìpi del diritto internazionale con uno squallido «nazionalismo dell'autopreservazione vitale».

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