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Questo articolo è stato pubblicato il 26 marzo 2014 alle ore 07:59.

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Se negli ultimi mesi abbiamo assistito al meritorio per quanto tardivo riempimento di buchi nella lacunosa bibliografia italiana di Joan Didion (l'ultimo arrivato è Prendila così, romanzo del 1970 pubblicato quest'anno dal Saggiatore nella traduzione di Adriana Dell'Orto), i prossimi potrebbero essere dedicati alla riscoperta di Renata Adler, giornalista e scrittrice americana, che con l'autrice dell'Anno del pensiero magico condivide più di un'affinità. Nate negli anni Trenta, entrambe giornaliste prima che scrittrici, guru della non-fiction, oggetti di un culto tanto sfrenato quanto minoritario, tutte e due figure ammantate allo stesso tempo di glamour e radicalismo, a proprio agio in un salotto del jet-set newyorchese come nel più derelitto Stato in guerra del Terzo mondo.

Il 25 marzo esce per Mondadori, nella traduzione di Silvia Pareschi, Mai ci eravamo annoiati, ovvero Speedboat, primo romanzo della Adler, pubblicato nel 1976, e apparso fugacemente in Italia nel 1983, con il più fedele titolo Fuoribordo per Guanda, infine ripubblicato nel 2013 nella collana dei classici moderni della New York Review of Books, grazie anche alle pressioni del National Books Critics Circle e di David Shields, che ha dichiarato di averlo riletto almeno venticinque volte.

ROMANZO O MEMOIR?
Speedboat è, curiosamente, il libro di cui lo scorso anno si è parlato con più entusiasmo negli ambienti letterari americani. Curiosamente perché è un libro di quarant'anni fa, ma che, altrettanto curiosamente, suona nuovo, contemporaneo. Scritto con una prosa avvolgente, ipnotica, che riesce a essere miracolosamente assertiva e dubitativa con la stessa potenza, è un libro privo di trama, diviso in capitoli solo apparentemente tematici in cui si susseguono scene e frammenti di vita newyorkese, di vacanze in barca, di missioni in Paesi sull'orlo della guerra civile, di ricordi di infanzia nella provincia della Costa orientale, raccontati in prima persona da Jen Fain, giornalista dello Standard Evening Sun.
Per usare le parole di David Shields in How Literature Saved My Life, un oggetto che frustra qualsiasi tentativo classificatorio: «Romanzo? Memoir? Saggio di critica culturale? Indagine filosofica? Diario? Giornalismo? Stand-up comedy?». Si risponde: tutto questo insieme. Di certo è un testo che dimostra, senza spiegarlo, il potere magico del linguaggio.

DA MILANO AL "NEW YORKER"
Autrice di soli due libri di fiction (l'altro è il mai apparso in Italia Pitch Dark del 1983, che verrà pubblicato nel 2015 sempre da Mondadori), la carriera di Renata Adler, che nasce a Milano nel 1938 da genitori tedeschi in fuga dal nazismo, può essere definita una forma di devozione trentennale al New Yorker, la mitologica rivista dell'intellighenzia americana, dove entrò giovanissima, appena laureata, scrivendo praticamente di tutto, dalla critica letteraria (in prevalenza) alla cronaca giudiziaria, passando per i reportage dal Biafra o dal Vietnam, e grazie al quale divenne intima di gente come Donald Barthelme, Edmund Wilson, Hannah Arendt.

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