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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2014 alle ore 11:50.

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Illustrazione di Guido ScarabottoloIllustrazione di Guido Scarabottolo

«È l'intenzione dello Spirito Santo d'insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo». Chissà quante volte i nostri lettori hanno sentito questa battuta attribuita a Galileo. In realtà, come lo stesso scienziato confessa, si tratta di una citazione: «Io direi quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado». L'«eminentissimo» in questione era il cardinale Cesare Baronio, nato a Sora nel 1538, legato a s. Filippo Neri, famoso storico della Chiesa, cardinale «bibliotecario di Santa Romana Chiesa», che corse il rischio di essere eletto papa nei due conclavi del 1605, quasi alla soglia della sua morte avvenuta nel 1607 a Roma (per la cronaca divennero, invece, pontefici Leone XI, Alessandro de' Medici, per un paio di settimane, e poi Paolo V, Camillo Borghese, che regnò fino al 1621).

Ora, questa citazione è presente nella celebre lettera che Galileo indirizzò a Cristina, figlia del duca di Lorena Carlo III e moglie del granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici, appassionata di studi astrofisici. La scadenza dei 450 anni dalla nascita di colui che, con Newton, è considerato il padre della scienza moderna, ha suggerito la necessità (15 febbraio 1564) di una nuova proposta di questo scritto particolarmente significativo dal punto di vista epistemologico per il rapporto tra fede e scienza. La lettera, molto ampia quasi da renderla simile a un trattatello, datata 1615, fu preceduta da un analogo testo, più breve, che Galileo nel 1613 destinò all'abate del monastero benedettino di Pisa Benedetto Castelli, e fu accompagnata nello stesso anno 1615 da due missive più succinte rivolte a un prelato romano, mons. Piero Dini, di taglio più auto-difensivo.

La nuova edizione delle quattro lettere "copernicane" (dato che il fisico pisano propugna la concezione eliocentrica formulata dal canonico e astronomo polacco Nikolaj Kopernik, morto nel 1543) è accompagnata dalla nota che il filosofo Giovanni Gentile elaborò per tracciare un profilo generale galileiano. L'atto che una ventina d'anni dopo, il mercoledì 22 giugno 1633, si consumò con l'abiura dello scienziato di fronte al tribunale dell'Inquisizione, si trasformerà in una vera e propria icona di un conflitto ritenuto insanabile e di una presunta incompatibilità tra scienza e religione. Lo stesso Giovanni Paolo II in un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1992 riconoscerà che «il caso Galileo divenne il simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico, oppure dell'oscurantismo "dogmatico" opposto alla libera ricerca della verità».

Togliere questa spina dal fianco della Chiesa è ancor oggi arduo, anche perché essa si è ingrossata con la sua forza infettiva attraverso la dimensione simbolica e fin mitica che il caso assunse nei secoli successivi. Basti solo pensare al dramma Vita di Galileo in 15 scene che Brecht ripetutamente rielaborò mutando di volta in volta il ritratto del protagonista: da combattente indomito della libertà intellettuale (versione del 1938-39) a difensore del proprio quieto vivere (resa del 1945-46), fino alla dura accusa di essere il capostipite degli scienziati atomici servi del potere politico (testo del 1953-55). Ci sono voluti quasi quattro secoli (e un numero notevole di grandi scienziati ecclesiastici) a riportare la questione del rapporto tra scienza e fede nei suoi termini reali e a riproporre il riconoscimento della legittimità di "magisteri non sovrapponibili". È questa la formula usata dallo scienziato ebreo agnostico americano Stephen Gould (non overlapping magisteria), per designare la necessaria molteplicità degli approcci conoscitivi alla realtà: da quello dedicato alla "scena", al "fenomeno" fisico, appannaggio del metodo scientifico, a quello teso a scoprire il "fondamento" metafisico, compito della filosofia, della teologia, dell'arte.

Ebbene, questo era proprio il succo ermeneutico delle Lettere galileiane. Egli, in verità, non era allora in grado di offrire una prova inconfutabile del movimento della Terra, prova che arrivò solo nel 1740 con la scoperta dell'aberrazione della luce stellare da parte dell'astronomo inglese James Bradley. In questo senso si può anche comprendere l'atteggiamento critico dei suoi giudici di fronte a quella che allora era una mera ipotesi. L'elemento decisivo offerto da Galileo era, invece, di ordine metodologico: nella scienza e nella teologia due sono gli statuti epistemologici in campo. Essi non possono essere confusi, né l'uno può prevaricare sull'altro, dato che attengono a prospettive diverse, anche se considerano lo stesso oggetto. È ciò che appare in modo nitido in questi scritti per cui egli in realtà sbaragliò i suoi contestatori teologi proprio sul loro terreno più che su quello scientifico.

Tanto per citare un asserto sintetico rispetto a quelli più articolati presenti in questi scritti galileiani, bastino queste righe della lettera all'abate Castelli: «Io crederei che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per bocca dell'istesso Spirito Santo». Questo per quanto riguardava lo statuto epistemologico della teologia. L'astronomo pisano continuava, poi, delineando in parallelo il metodo sperimentale proprio delle scienze fisiche.

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