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Questo articolo è stato pubblicato il 09 aprile 2014 alle ore 09:05.
L'ultima modifica è del 09 aprile 2014 alle ore 09:06.

Più che una «santità esemplare» (come quella della maggior parte dei santi), per Lercaro e Dossetti si trattava di riconoscere in papa Giovanni una «santità programmatica». Si trattava cioè di consegnare la figura di Roncalli meno alla devozione privata dei singoli cristiani che all'impegno pubblico della Chiesa di uniformarsi alla lezione giovannea. E si trattava di suggellare lo spirito del Concilio attraverso la ripresa di un istituto – la proclamazione assembleare dei santi – che restituisse voce anche in questo alla comunità dei credenti, ridimensionando lo strapotere delle gerarchie vaticane.
L'iniziativa di Lercaro e Dossetti si scontrò tuttavia sia con la comprensibile prudenza del nuovo papa, Paolo VI, sia con la sorda opposizione degli ambienti ecclesiastici più ostili allo spirito come alla lettera del Concilio Vaticano II. Anziché approdare seduta stante, la causa di canonizzazione di Giovanni XXIII era destinata a seguire un percorso lungo e accidentato, che va ritrovato nel libro di Enrico Galavotti molto più che in quello di Stefania Falasca.
In fondo a tale percorso sta la decisione assunta da papa Francesco in occasione del suo primo concistoro, nel settembre 2013, di procedere alla canonizzazione di Giovanni XXIII pro gratia: senza che sia intervenuto – dopo la beatificazione del 2000 – alcun riconoscimento formale di un secondo miracolo compiuto da papa Roncalli. In altre parole, Giovanni XXIII finisce effettivamente per diventare santo attraverso un percorso privilegiato, se non proprio attraverso uno strappo alla regola. Ma diventa santo, oggi, per grazia di un papa, non per voto di un Concilio.
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